Nella reazione alla crisi sanitaria ed economica – al netto della retorica “nord Europa contro sud Europa” e delle polemiche sul MES – l’Europa, intesa come Unione Europea, si è mossa. Con ritardo e con una comunicazione disordinata e maldestra, ma si è mossa. Dall’attivazione della clausola di salvaguardia del Patto di stabilità e crescita alla creazione del fondo SURE di cassa integrazione da 100 miliardi; dal quadro temporaneo per gli aiuti di Stato fino Flessibilità nell’utilizzo dei fondi strutturali.
In un breve periodo di tempo, da Bruxelles, sono arrivate insomma – nei limiti degli scarsi poteri dell’esecutivo europeo – iniziative tutto sommato ambiziose.
Eppure, sempre più cittadini, soprattutto nei paesi del sud più colpiti dal Covid, tra cui l’Italia, mostrano un drastico calo di fiducia verso l’Europa e le sue istituzioni. È del resto nella natura stessa del progetto europeo – necessariamente ambiguo, a metà tra mera cooperazione economica e unione politica, e stretto tra le priorità talora divergenti tra i vari paesi membri – di accendere le aspettative legittime dei popoli salvo poi, in larga misura, frustrarle quando i nodi vengono al pettine.
In ordine sparso
Si tratta di un paradosso tanto politico quanto di narrazione. Il concetto di solidarietà tra popoli e nazioni europee, ad esempio, è alla base delle aspirazioni dei padri fondatori e delle madri fondatrici dell’Europa. Viene ripreso in praticamente ogni Trattato, ogni discorso, ogni iniziativa a livello europeo.
Eppure, nel momento in cui l’escalation del virus è giunta a un punto critico, si vede prevalere in Europa la logica dell’ognuno per sé. Le frontiere tra paesi vengono improvvisamente chiuse, le misure di lockdown sono decise in modo unilaterale e scoordinato, gli aiuti economici europei vivono una gestazione straordinariamente tormentata. La tanto decantata solidarietà tra paesi, insomma, si scontra in ultimo con le priorità politiche ed economiche dei vari paesi. Questo genera inevitabilmente l’incomprensione e l’avvilimento anche dei settori più europeisti della popolazione.
Il fenomeno non è nuovo: lo si era ampiamente visto ai tempi della crisi migratoria. È, in una certa misura inevitabile, quando gli elementi fondamentali delle politiche pubbliche, dalla sanità alla sicurezza fino all’educazione e alla politica estera, sono e rimangono eminentemente nazionali. Tale prevalenza dell’ottica nazionale è stata solo parzialmente scalfita dagli avanzamenti dell’integrazione europea.
Ci troviamo così oggi dinanzi un’Europa ibrida: caricata di aspettative per soluzioni concertate e comuni ai problemi dei cittadini e delle imprese e, al tempo stesso, disperatamente priva delle risorse e della legittimità necessaria per tentare di attuarle. E con una classe politica, a tutti i livelli, colpevolmente priva di visione e di leadership.
Riemergono i sovranismi
In queste condizioni, e nel progressivo emergere di una nuova normalità che probabilmente tutto sarà fuorché passeggera,[1] c’è dunque da prevedere uno sfaldamento dell’Europa e delle sue istituzioni? Forse. Forse le tendenze nazionaliste, per ora sotto controllo, torneranno alla carica, spinte dalla sfiducia, dai timori globali e dalla crisi economica. E forse saranno in grado di dare la spallata finale all’esile progetto europeo.
Ma esiste anche la possibilità che l’Europa trovi una nuova prospettiva e un rinnovato vigore dalla crisi. In un mondo già caratterizzato da guerre commerciali, uno degli effetti del virus potrebbe essere quello di accelerare l’ondata globale di protezionismo. Nell’ambito di una crisi economica che potrebbe protrarsi per svariati anni, alcuni esperti prevedono infatti un rimpatrio dei settori a più alto valore strategico – dalle nuove tecnologie al settore agroalimentare, passando ovviamente della produzione di materiale medico e sanitario – dalla catena di produzione globalizzata verso gli stati-nazione.[2] Ciò significa che ogni stato potrebbe applicare un certo livello, per così dire, di autarchia in taluni settori.
È del tutto evidente che, se questa logica può ancora reggere se applicata a paesi di dimensioni continentali come Cina e Stati Uniti, essa non appare verosimile per potenze medie e piccole come quelle europee. Potrebbe tuttavia, nell’ambito di regole ben chiare e rispettate da tutti, applicarsi all’insieme dell’Unione Europea. A patto, naturalmente, che le classi dirigenti europee abbiano la capacità e la volontà di far prevalere la razionalità sul populismo.
Il virus potrebbe insomma avvicinarci a una sorta di sovranismo europeista, in cui l’integrazione europea non viene messa in questione, ma assume un’ottica marcatamente protezionistica e di confronto più esplicito con le altre potenze mondiali, prendendo per l’appunto in prestito alcuni elementi tipici del sovranismo di Salvini o di Le Pen.
Verso una “fortezza Europa”?
Alcuni segnali in questo senso sono già presenti: dal rinnovato accento sulla difesa comune europea (cf. SettimanaNews), al rafforzamento della – storicamente fragile – politica industriale europea, ad un approccio normativo molto più severo rispetto all’attività delle piattaforme online americane, sino alla recente decisione di chiudere le frontiere esterne dell’area Schengen in modo (per una volta) coordinato alla luce dell’avanzare della pandemia.
Emergono insomma i segnali di un’Europa sempre più fortezza. Segnali che, peraltro, hanno un risvolto anche nella narrazione dell’Europa stessa. Si pensi all’uso sempre più diffuso di termini come “sovranità tecnologica europea”, e “l’Europa che protegge”, spesso nati dalla cultura politica francese, e che peraltro strizzano l’occhio ai settori sociali che si sono trovati più fragilizzati da fenomeni quali la globalizzazione e la crescente digitalizzazione dell’economia e hanno talora abbracciato il pensiero sovranista.
C’è da dire che un’attuazione del sovranismo europeista implicherebbe una buona dose di Realpolitik, la quale si scontra in maniera eclatante con la narrazione dell’europeismo più idealistico: quello dell’Europa potenza mite, aperta sul mondo, votata al multilateralismo e bastione dei diritti umani. Di un’Europa vista come comunità di valori prima che di interessi. Se l’integrazione europea dovesse prendere questa strada, qualcuno dirà insomma che l’Europa ha venduto l’anima al diavolo.
Ci confrontiamo anche qui con una questione narrativa oltre che politica: quella del mito dell’innocenza dell’UE, in particolare in campo internazionale. Un mito in parte veritiero – soprattutto se confrontato con lo smaliziato modus operandi internazionale di potenze quali Stati Uniti, Cina e Russia –, ma in larga misura ipocrita – si pensi all’accordo UE-Turchia per la gestione dei migranti – che costituisce un’altra delle grandi ambiguità politiche e di narrazione della costruzione europea. Un mito che Covid e sovranismo europeista potrebbero archiviare in maniera definitiva.
[1] Per chi voglia approfondire si consiglia l’intervento di Donald G. McNeil Jr. editorialista del New York Times.
[2] Si vedano a questo proposito le previsioni, a dir poco cupe, dell’economista Nouriel Roubini.