La recente sentenza della Corte Suprema americana che definisce il perimetro di estensione dell’immunità di cui gode il presidente degli Stati Uniti è destinata a fare storia non solo nell’ambito giuridico, ma anche e soprattutto in quello politico. Questo perché, per la prima volta nella storia della nazione americana, un ex presidente (Trump), è stato formalmente messo sotto accusa di aver compiuto atti criminali mentre ricopriva l’ufficio. Molto, in questo momento, si sta dicendo sulla sentenza della corte, poco si è riflettuto previamente sul processo messo in atto nei confronti di Trump.
Per un attimo, anche i commentatori più avveduti, hanno visto nel procedimento penale che metteva Trump sotto accusa di aver tentato di sovvertire i risultati delle elezioni presidenziali e, poi, di alto tradimento per i fatti del 6 gennaio 2021, come la “via elegante” per impedire una sua seconda candidatura a presidente degli Stati Uniti. Un sogno, questo, svanito ben prima della decisione della Corte Suprema.
La prima presidenza Trump fu resa possibile, in gran parte, dal ceto economico e finanziario americano – ora entrato nel panico per le ripercussioni che il suo secondo mandato potrebbero avere per gli interessi e scopi di cui quel ceto è portatore. La scelta di avere “uno dei nostri” a ricoprire la massima carica esecutiva degli Stati Uniti è stata miope e gravida di conseguenza – per il mondo intero.
Trump ha sostanzialmente privatizzato non solo l’ufficio pubblico del presidente degli Stati Uniti, ma anche l’attività dell’intero potere esecutivo – ne ha fatto insomma una sua azienda, a proprio servizio e tornaconto. Ora, ne raccoglie i dividendi. Poi, da abile venditore, ha sdoganato il tutto alla nazione come il massimo interesse per quest’ultima. Per quanto volatile da definire in termini giuridici, questa privatizzazione personale del potere esecutivo rappresenta la vera questione costituzionale posta dalla presidenza Trump – passata e a venire.
Una questione non meno dirimente di quella dell’ampiezza dell’immunità da procedure penali di un ex presidente per atti compiuti nel corso del suo mandato.
La sentenza crea le condizioni giuridiche per un modo di esercizio del potere esecutivo, incorporato nella sua totalità nella persona del presidente, iniziato già nel secolo scorso – nel passaggio tra II Guerra mondiale e Guerra fredda. Un processo, questo, di “supremazia presidenziale” che, dopo una breve interruzione negli anni ’70 (Watergate e guerra in Vietnam), ha conosciuto una sua decisa ripresa con l’amministrazione Reagan. Per essere poi applicato sia da presidenti repubblicani che democratici.
Furono però le amministrazioni Reagan e Bush padre che cercarono di dare profilo giuridico-costituzionale a questo “primato” del presidente, e non solo di esercitarlo politicamente. Non è un caso che alcuni dei giudici della Corte, che hanno firmato la sentenza di maggioranza, abbiano lavorato in passato proprio per queste due amministrazioni facendo parte dei team legali che andavano componendo i primi pezzi della dottrina giuridica di un esercizio, e una estensione, eccezionale del potere del presidente – a prescindere dagli atti e dalle situazioni in cui esso si esprimeva.
Ora, si potrebbe dire che la sentenza guarda ed è costruita come dottrina giuridica, a prescindere dalla qualità degli atti e dalle situazioni in cui essi vengono messi in essere; mentre l’opinione della minoranza dei giudici considera esattamente il contenuto degli atti e il contesto in cui essi sono posti – e, quindi, le conseguenze di cui essi sono generatori.
Entrambe le posizioni non sono scevre di problemi. La sentenza perché apre le porte a una giustificazione dell’abuso del potere esecutivo incarnato nella persona del presidente degli Stati Uniti, amplificando gli ambiti di uso discrezionale di tale potere a prescindere dagli effetti, sulla stessa struttura costituzionale degli Stati Uniti, dell’esercizio di tale potere – che tende, sotto la copertura immunitaria, a un assolutismo monarchico.
L’opinione della minoranza corre il rischio di consentire un uso ritorsivo del potere esecutivo in ambito giudiziario, con un’amministrazione che mette sotto accusa il presidente precedente per aver mancato a quelli che sono i doveri del suo ufficio. Pericolo, questo, che emerge a chiare lettere verso la fine della sentenza – e che, al di là della dottrina, sembrerebbe essere la ragione primaria che ha spinto verso la formulazione della sentenza stessa.
Sancendo così la condizione drammatica della democrazia americana, dove oramai “the enemy is within” (il nemico è tra di noi, uno di noi).