A due giorni dalle elezioni di midterm negli Stati Uniti l’esito delle maggioranze al Congresso è ancora aperto.
Per la Camera dei Rappresentanti si profila una maggioranza minima a vantaggio del Partito repubblicano; mentre al Senato i giochi sono ancora completamente aperti con i democratici che possono ancora avere fondata speranza di mantenerne il controllo – è molto probabile che bisognerà attendere qui il ballottaggio a dicembre per il posto di senatore in Georgia, in quanto nessuno ha raggiunto il quorum necessario del 50%.
Attese, soprattutto dai repubblicani, come un momento di profonda cesura del sistema americano, queste elezioni non hanno fatto altro che confermare un trend tipico del XXI secolo: se dal 1952 al 1974 il Senato, la Camera dei Rappresentanti e la Casa bianca erano passate da un partito all’altro solo quattro volte, dal 2000 al 2020 sono stati nove i cambi di mano realizzatisi.
Democrazia e stasi politica
Con una conseguente instabilità per ciò che riguarda le politiche a lungo termine, una tendenziale paralisi legislativa, il coagularsi sistemico di una polarizzazione sia politica sia civile. A conferma della difficoltà di governare la nazione in queste giravolte continue delle maggioranze è l’uso degli “ordini esecutivi” da parte degli ultimi due presidenti: Trump ha viaggiato a una media di 55 all’anno, e nel primo biennio Biden siamo saliti a 59. Un incremento notevole rispetto alle precedenti presidenze Bush (36 all’anno) e Obama (35 all’anno).
Il Partito democratico non esce stritolato e quello repubblicano non ha trionfato. Insomma, poco è cambiato. E la condizione della democrazia statunitense rimane preoccupante, con ricadute non irrilevanti sulla fiducia internazionale nei confronti degli Stati Uniti come alleato o partner geopolitico.
La stasi dice che, pur davanti a problemi strutturali e a una crisi complessiva, nessuno dei due partiti ha saputo farsi bandiera delle preoccupazioni e dei bisogni della popolazione americana.
Queste elezioni di midterm potrebbero segnare una prima crepa nella monolitica identificazione del Partito repubblicano con l’agenda personale dell’ex presidente Trump: i candidatati che ha supportato, o imposto, sono usciti quasi tutti sonoramente sconfitti – provocando le prime esternazioni critiche pubbliche nei suoi confronti da parte di membri del Partito repubblicano.
Contemporaneamente, la vittoria eclatante del Governatore della Florida Ron DeSantis (con uno scarto favorevole del 19% sul candidato democratico), che ha trascinato con sé i repubblicani anche nella corsa al Senato e alla Camera dei Rappresentanti, consegna al Partito repubblicano una possibile alternativa a Trump in vista delle prossime presidenziali. Alternativa temuta da Trump, che ha già iniziato una minacciosa campagna di delegittimazione nei confronti di De Santis.
La Florida e i referendum sull’aborto
Con questa tornata elettorale, DeSantis è riuscito a trasformare la Florida da swing-state conteso dai due partiti a presidio repubblicano – intercettando a proprio favore la maggioranza di voti della popolazione ispanica. Se il Partito repubblicano trovasse il modo di garantirsi anche altrove questa proporzione di voto latino, le prossime presidenziali potrebbero essere un affare già concluso.
Ma in queste elezioni non era in gioco solo il Congresso e il destino del secondo biennio Biden: con un referendum in cinque stati (California, Michigan, Montana, Kentucky e Vermont), si è data la prima verifica politica della sentenza della Corte suprema in materia di aborto. Seppur differentemente modulati, sulla linea pro-life e pro-choice, l’esito dei cinque referendum è stato unanime: quello di garantire, in un qualche modo più o meno ampio, la possibilità legale per le donne di abortire.
I vescovi americani hanno espresso tutto il loro disappunto per l’esito dei referendum, ma lo hanno fatto con parole e logiche che continuano a ricalcare lo spirito del contenzioso che caratterizzava il dibattito prima della sentenza della Corte suprema. Ossia, sembrano non avere compreso il cambiamento di paradigma, politico e sociale, inscritto nell’esito effettivo di quella sentenza (vissuta come un trionfo giuridico).
Se l’aborto passa dall’essere questione giuridica a contenzioso politico, tutto il movimento pro-vita americano, vescovi compresi, deve trovare rapidamente un nuovo linguaggio e approntare strategie che vadano oltre la mera retorica della salvaguardia della vita non nata.
Insomma, si deve passare immediatamente alle pratiche di sostegno alle donne, a politiche di giustizia sociale, alla creazione di infrastrutture si supporto e consulenza, e così via. E a livello statale bisogna mettere mano a politiche di mediazione e compromesso, che si allontanino dal “tutto o niente” dei decenni di Wade vs. Roe.
Un banco di prova per la posizione cattolica che si è battuta per tutto questo tempo a favore della vita non nata: vinta la battaglia giuridica, bisogna ora riuscire politicamente a rendere possibile la dignità della vita stessa.