Se la guerra in Ucraina ha precipitato il mondo in un clima da nuova Guerra Fredda, l’Africa rischia di tornare a essere un grande teatro di conflitto. Non ci sono più ideologie contrapposte, restano le mire espansionistiche di chi vuol mettere le mani sul continente: petrolio, gas, minerali preziosi, terre fertili. Ci eravamo illusi che la globalizzazione avrebbe cancellato le ferite del passato. Non è così.
«Quello che faremo, o non riusciremo a fare, in Africa entro il prossimo anno o i prossimi due avrà grandi conseguenze per gli anni a venire. Riteniamo che l’Africa sia forse il più grande campo di manovra della competizione su scala mondiale fra il blocco comunisata e il mondo non-comunista».
Così, nel marzo del 1962, agli inizi del decennio delle indipendenze, Kennedy chiariva il posto che questo continente avrebbe occupato nello scacchiere internazionale. Da allora, per tre decadi, Stati Uniti e Unione Sovietica calarono nel territorio africano la loro contrapposizione politica e militare, favorendo e alimentando conflitti che seminavano morte, distruzione, instabilità. Le due superpotenze usarono gruppi ribelli ed eserciti di liberazione come pedine di una micidiale partita dove le vittime erano le popolazioni civili.
Oggi – a sessant’anni dalle parole di Kennedy – la storia sembra ripetersi. Se la guerra in Ucraina ha precipitato il mondo in un clima da nuova Guerra Fredda, l’Africa rischia di tornare a essere un grande teatro di conflitto. Non ci sono più ideologie contrapposte, restano le mire espansionistiche di chi vuol mettere le mani sul continente: petrolio, gas, minerali preziosi, terre fertili.
Gli effetti sono già evidenti: la Libia è a pezzi, fuori dal controllo del governo di Tripoli, in balia di milizie sostenute da forze straniere; nel Sahel ostaggio della minaccia jihadista, i soldati di Mosca hanno preso lo spazio liberato dal ritiro dei militari francesi, accusati dalle popolazioni locali di aver difeso in questi anni gli affari di Parigi a scapito della stabilità e della sicurezza. Non è un caso che un terzo dei Paesi africani si sia astenuto nel voto con cui l’Assemblea dell’Onu ha condannato l’invasione dell’Ucraina. E fanno riflettere le manifestazioni di appoggio ai soldati russi (visti come liberatori dal giogo neocoloniale) pervenute da Bamako a Bangui.
Ci eravamo illusi che la globalizzazione avrebbe cancellato le ferite del passato. Non è così. In un mondo che torna bipolare – Occidente e Oriente – le potenze egemoni aspirano ad allargare la loro sfera d’influenza in Africa, sottraendola agli avversari, per impossessarsi di risorse e territori: oggi come ieri, si fanno la guerra per interposte nazioni, di solito fuori dai radar dei grandi media. I conflitti nel continente – Centrafrica, Mali, Burkina Faso, Sud Sudan, Somalia, Etiopia (Tigray), Rd Congo (Kivu e Ituri), Mozambico (Cabo Delgado) – celano enormi interessi che coinvolgono attori internazionali: Usa, Cina, Unione Europea, Russia, Turchia, Paesi del Golfo. Ma la guerra in Ucraina ci ricorda ancora una volta che non possiamo permetterci di ignorare crisi che ci appaiono lontane. Il mondo è tutto interconnesso.
La stessa Africa subisce i contraccolpi della crisi nel cuore dell’Europa: nel 2021 i Paesi subsahariani hanno importato cereali e beni alimentari dalla Russia per 4 miliardi di dollari e dall’Ucraina per 3 miliardi di dollari.
Il boom dei prezzi delle commodities favorisce gli esportatori di idrocarburi (come Nigeria, Algeria, Angola), ma al tempo stesso infiamma ovunque l’inflazione dei beni di prima necessità, acuendo tensioni sociali e fomentando rivolte. È nel continente africano, lontano dai riflettori, che si scateneranno gli effetti più nefasti del braccio di ferro dei “grandi” della Terra.
Dall’esito di questo scontro verrà ridisegnata la geopolitica mondiale, ma già sappiamo che le vittime saranno civili senza colpa e senza difese.
- Pubblicato sulla rivista Africa.
Grazie. Molto interessante.