Poco tempo dopo essere stato eletto presidente, Emmanuel Macron redarguì un ragazzino delle medie che lo aveva chiamato Manu (diminutivo di Emmanuel) con queste parole: «Per te, io sono Monsieur le Président». Come tutte le persone che hanno un’alta considerazione di sé, Macron è estremamente suscettibile. Se, poi, una persona estremamente suscettibile diventa presidente della Francia, le sue predisposizioni naturali sono moltiplicate per un fattore g (“grandeur”).
Si può dunque immaginare la frustrazione in cui Macron deve essersi trovato nei giorni successivi al 24 febbraio 2022.
Non tanto per l’invasione dell’Ucraina, quanto per il fallimento del suo estremo tentativo di mediazione a Mosca e soprattutto per il fatto di essersi dovuto mettere passivamente al traino della pronta ed energica risposta americana, assistendo peraltro alla resurrezione della NATO da lui stesso definita, qualche anno prima, in «stato di morte cerebrale».
Il contesto
Alla fine del secolo scorso, sull’onda del successo dell’Unione europea, le ipotesi di un «pilastro europeo della NATO» si fecero sempre più insistenti.
Quella formula era l’ultima versione di un progetto immaginato da Charles de Gaulle fin dal 1943: un «terzo polo» europeo in grado di giocare alla pari con gli Stati Uniti e l’Unione sovietica sul piano politico e militare – un polo, va da sé, a guida francese, ma con l’apporto indispensabile e subordinato della Germania («La France doit être le cavalier et l’Allemagne le cheval» avrebbe detto de Gaulle). I Trattati di Roma del 1957 e soprattutto il Trattato dell’Eliseo tra Francia e Germania nel 1962 furono le due tappe principali in quella direzione.
La creazione dell’Unione europea (1992) e dell’euro (1999) furono due momenti strategici cruciali per il Vecchio continente, ma anche due strumenti studiati da Parigi per «ingabbiare» una Germania diventata troppo ingombrante dopo la sua riunificazione (1990).
La guerra in Iraq del 2003 provocò la rottura tra (secondo la definizione di Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa americano) la «vecchia Europa», cioè la Francia e la Germania, alleate per l’occasione con la Russia, e la «nuova Europa», cioè quasi tutti gli altri membri dell’UE, e soprattutto i futuri membri già satelliti dell’URSS durante la guerra fredda. Il progetto di «pilastro europeo della NATO» finì in soffitta. E vi restò fino a quando Macron, nel 2017, lo riprese con la formula di «autonomia strategica europea».
L’invasione russa dell’Ucraina ha messo la Francia e la Germania con le spalle al muro. Il precedente del 2003, per di più in una crisi sul suolo europeo, ha costretto Parigi e Berlino ad adeguarsi ai tempi e alle scelte di Washington: Macron e Scholz erano andati entrambi a Mosca, qualche giorno prima dell’invasione, per cercare di scongiurare il rischio di trovarsi, una volta di più, schiacciati tra Washington e Mosca.
Con la guerra in Ucraina, la Russia ha finito col rafforzare e consolidare la NATO e, al suo interno, rafforzare il fianco orientale, il più vicino all’America, mandando in soffitta anche l’«autonomia strategica» di Macron.
Nel primo anno della dissennata «operazione militare speciale», tra i vincitori si potevano contare gli Stati Uniti e i loro più stretti alleati d’Europa del Nord e centro-orientale, e tra gli sconfitti la coppia franco-tedesca, oltre, naturalmente, la Russia stessa.
Cosa è cambiato
Per più di un anno, Macron ha dovuto ruminare la sua frustrazione. Poi, la situazione è cambiata, e il presidente francese ha ripreso l’iniziativa.
Il primo e più importante cambiamento viene dagli Stati Uniti: dall’incapacità del Congresso di votare il pacchetto di aiuti all’Ucraina; dalle esternazioni anti-NATO e pro-russe dell’ex, e forse futuro, presidente Donald Trump; dalla guerra a Gaza che ha mostrato in modo inequivocabile la perdita di influenza americana. Il secondo cambiamento viene dall’Ucraina, tra le meschine gelosie tra vertici politici e militari e le apparentemente imparabili difficoltà sui campi di battaglia.
Il terzo cambiamento viene dal crescente allarmismo dei ministeri della Difesa e dei media di molti paesi europei, in particolare in Germania, che reclamano più mezzi e il ristabilimento di forme di coscrizione obbligatoria per far fronte alla «minaccia russa».
Questi tre elementi di novità hanno creato la condizione ideale per il rilancio in grande stile dell’«autonomia strategica» e perfino della «difesa comune europea».
La narrazione secondo cui Mosca starebbe vincendo la guerra, e che non solo l’Estonia e la Moldavia, ma anche la Polonia e la Svezia, e perfino la Germania e la Francia potrebbero essere le prossime vittime dell’espansionismo russo, è strumentale a un movimento convergente di trasferimento delle risorse pubbliche dal civile al militare ovunque in Europa.
In una formula semplificatrice: abbiamo un nemico comune, e quindi necessitiamo di una difesa comune, costi quel che costi.
Non escludere l’invio di boots on the ground è un modo, per Macron, di alzare la posta, un modo per costringere i reticenti a scegliere se schierarsi tra i coraggiosi oppure tra i codardi (i «lâches» espressamente fustigati il 5 marzo).
L’obiettivo di Macron è, innanzitutto, la Germania. Anche là il clima politico ha cominciato a cambiare negli ultimi tempi, persino all’interno del Partito socialdemocratico.
Il ministro della Difesa Boris Pistorius si è pronunciato a più riprese sulla necessità di abituarsi al «pericolo di una guerra» e che quindi «l’Europa deve accrescere il suo impegno nella difesa».
Miele, per le orecchie di Macron, soprattutto perché il capo di Pistorius, Olaf Scholz, tiene un linguaggio molto più prudente. Entrambi, però, hanno respinto con fermezza l’ipotesi di boots on the ground.
Prima della sortita macroniana del 5 marzo, sembrava che l’«autonomia strategica» e la «difesa comune europea» cominciassero ad avere in Germania sempre più adepti, al punto che sia Handelsblatt che la Frankfurter Allgemeine Zeitung avevano violato un tabù facendo esplicito riferimento a un possibile armamento nucleare su scala europea, ma anche su scala nazionale.
Allo stato attuale delle cose, però, appare assai improbabile che il presidente francese possa trovare seguito in Germania sulla possibilità di invio di truppe europee o della NATO in Ucraina.
E ora?
In Germania, alcuni commentatori favorevoli in linea di principio all’«autonomia strategica» hanno cercato di minimizzare la sortita del 5 marzo, parlando di volontaria «ambiguità strategica» (che consiste cioè a seminare il dubbio nell’avversario), o addirittura di uso strumentale per riprendere altitudine in vista delle elezioni europee di giugno.
Certo, se la risposta di Putin a Macron, con la minaccia di usare l’arma nucleare contro città europee, fosse da prendere sul serio, rischiare l’Armageddon per prendere qualche voto in più sarebbe quantomeno criminale.
Tuttavia, come tutti i giocatori di poker con brutte carte in mano, la Russia eccelle nell’arte del bluff, e Macron sa bene che non sta rischiando l’Armageddon. Ma sta rischiando qualcos’altro, che, dal punto di vista strategico, non è meno grave, per l’Europa e quindi anche per la Francia: sta rischiando la spaccatura del Vecchio continente.
Il tentativo di mettere il cancelliere tedesco nell’angolo, adombrando perfino che sia un codardo, non può essere annoverato tra le operazioni meglio riuscite per rinsaldare l’amicizia franco-tedesca.
Tanto più che Macron è stato, dal 24 febbraio 2022 fino a poche settimane fa, il leader europeo più disponibile nei confronti di Mosca, fra i leader che contano; tanto più che la Germania è il secondo contributore di aiuti all’Ucraina in termini assoluti (più di 22 miliardi di dollari tra gennaio 2022 e gennaio 2024), mentre la Francia (1,7 miliardi) non appare neppure nella graduatoria dei primi dieci paesi. Anche se nel computo mancano i costi dell’addestramento, della condivisione di informazioni o dell’accesso ai servizi satellitari spaziali, il gap resta enorme.
Ma questi sono dettagli. Da un punto di vista geopolitico, la Francia ripete sempre lo stesso errore, senza dar segni di resipiscenza.
Dal 1943, a Parigi vige l’idea che o l’Europa sarà francese o non sarà; dopo che la Germania unificandosi ha modificato i rapporti di forza all’interno del processo di integrazione continentale, la Francia si è sentita defraudata, e ha punito la sua ex-creatura con il referendum del 2005 che ha affossato la Costituzione.
Macron ha sempre saputo, e sempre detto, che la Francia non è nulla senza l’Europa, ma continua, come i suoi predecessori, a pensare che l’unico modo di unificare l’Europa sia di trasformarla in una Grande Francia.
È difficile che la cosa risulti appetibile agli altri 26 paesi dell’Unione europea, in particolare a quelli che si ricordano come, nel giugno 2022, il presidente francese invitasse a «non umiliare la Russia». Per far dimenticare quella sortita, Macron non ha trovato di meglio che umiliare la Germania.
Non sembrerebbe un gran passo in avanti.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 19 marzo 2024
Macron non rappresenta la Francia. Basta seguire i commenti sui social media francesi per sapere quanto poco sia amato in Francia Emmanuel Macron. La riconferma come presidente è stata solo perché la maggioranza dei francesi non ha votato, per non voler scegliere l’ unico altro contendente Marine le Pen. Macron rappresenta solo gli interessi della élite ricca finanziaria da cui proviene . Rappresenta il piu’ cinico milieu di coloro che già ricchi e potenti, pensano solo a se stessi e ai propri interessi ,non importa gli nulla del popolo a cui raccontano un sacco di menzogne. Il popolo francese non ci crede piu’ alle menzogne di costoro, ma benché’ abbiano tentato qualche ribellione non hanno la forza per scrollarsi di dosso il peggior burattinaio possibile: la grande finanza.
Intanto alle elezioni del 2022 al secondo turno l’affluenza è stata del 71,99% ergo la maggioranza delle persone ha votato. In secondo luogo per anni la maggioranza dei commenti sui social erano contro Berlusconi e i suoi, ma questo contrastava il fatto poi lui prendesse sempre tantissimi voti e facesse i governi. i social sono delle camere d’eco