Venezuela: informazione religiosa e società

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Il progetto di internazionalizzazione di SettimanaNews, dopo il Congo, ha conosciuto una seconda tappa in Venezuela, dove la collaborazione con due confratelli dehoniani, p. Antonio Teixeira e p. Manuel Lagos, ci consentirà di offrire alle nostre lettrici e lettori una narrazione interna dell’America Latina. Già questa informazione è il frutto del lavoro fatto insieme nella settimana trascorsa nella loro comunità a Caracas.

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Il tratto strutturale di questo nuovo ampliamento verso il sud del mondo riguarda la disponibilità di p. Antonio e p. Manuel a fungere da referenti e interfaccia fra il lavoro della redazione di SettimanaNews e il vissuto del continente latino-americano. Essi apportano non solo il contatto diretto con la quotidianità ecclesiale, sociale e politica del loro paese, ma anche le competenze ministeriali e professionali che hanno coltivato nei loro percorsi di formazione e che caratterizzano il ministero che esercitano per la Congregazione nel contesto della Chiesa venezuelana. Un patrimonio prezioso che arricchisce il lavoro di informazione religiosa di SettimanaNews.

Un secondo aspetto di questa tappa latino-americana del processo di internazionalizzazione riguarda i contatti che, grazie a p. Antonio e p. Manuel, abbiamo potuto sviluppare in loco. Innanzitutto con la rivista dei gesuiti venezuelani Revista SIC, diretta da Juan-Salvador Pérez.

La sintonia nell’approccio informativo, che legge le vicende delle Chiese all’interno dei contesti socio-culturali e delle dinamiche politiche di un paese, ha dato forma quasi naturalmente a un reciproco interesse per una collaborazione fra le due riviste. In primo luogo, mettendo a disposizione articoli di ciascuna di esse per una pubblicazione in italiano o spagnolo.

Sempre nell’ambito della comunicazione religiosa ed ecclesiale si colloca l’incontro avuto con p. Nestor Briceño, presidente di un’associazione di informatori cristiani latino-americani. Abbastanza critico nei confronti dell’informazione ecclesiale del continente, a suo avviso eccessivamente connotata dal punto di vista ideologico e politico, ci ha invitato a prestare attenzione a tutto un giornalismo indipendente che caratterizza anche il panorama dell’informazione religiosa latino-americana.

Infine, quello che potremmo definire l’aspetto più strettamente culturale nella costruzione di una rete di collaborazione in America Latina – che fa perno sull’Università Cattolica Andrés Bello di Caracas. Qui si apre la possibilità di una cooperazione con il Centro interdisciplinare di Teologia, diretto dal prof. Nelson Tepedino – con il vantaggio di incrociare competenze accademiche diverse nella lettura dei fenomeni ecclesiali, religiosi e socio-politici dei paesi latino-americani.

Caracas

Sono tornato a Caracas dopo quasi vent’anni dalla mia ultima visita alla città, dove vive una parte molto cara della mia famiglia. Quando arriva qualcuno da fuori, per chi la vive quotidianamente, la domanda che ti viene rivolta quasi subito è «come ti sembra?».

Ho ancora vivida dentro di me l’immagine che mi aveva lasciato quella mia ultima visita: un senso di insicurezza, e anche un po’ di paura, quando si attraversava in macchina la città (a finestrini rigorosamente chiusi). Ricordo anche la circospezione dei confratelli nel rapido passaggio che facemmo nel barrio dove svolgevano il ministero – alla luce del giorno, perché sarebbe stato troppo pericoloso attraversarlo dopo il calar della sera.

Ricordo anche il senso opprimente di una povertà solo sfiorata, ma che ti rimaneva addosso senza potersela scrollare via. Per quasi due decenni i barrios di Caracas sono stati il mio immaginario della povertà, della sua ingiustizia, del prezzo che qualcuno deve pagare per il nostro benessere.

Come mi è sembrata Caracas dopo vent’anni? Rispondo per immagini: questa volta ho potuto girare per la città in macchina coi finestrini abbassati, anche nel barrio di sera. E dopo il viaggio con Marco a Kinshasa mi sono reso conto che, purtroppo, anche la povertà è qualcosa di relativo. Nella megalopoli africana la povertà è ovunque, ti salta addosso a ogni passo e non ti dà tregua. È brutale nel suo essere ovunque, senza fissa dimora. Forse questa è la differenza più grande: nei barrios di Caracas hai come l’impressione che la povertà abbia come una casa – fatiscente quanto vuoi, ma comunque una casa.

Certo, è una povertà segregata – lontano dalla vita e dagli occhi di chi può vivere comunque bene, anche in una situazione economica nella quale noi occidentali ci sentiremmo disperati. È la povertà di quelli che devono scendere dal loro ghetto, fatto di casette ammassate una sull’altra, nella città civile. È una povertà ammantata di razzismo da parte di chi non abita lì – come se il relativo benessere di chi sta giù dalle colline sentisse come una minaccia insopportabile l’esistenza dei poveri, il fatto che essi esistono e si muovono lungo le strade della città che sta giù in basso.

Un razzismo verso i poveri che, invece, non avevamo sentito a Kinshasa, mentre a Caracas tutta la vita è organizzata per stare lontani dai poveri e dalla povertà – per tenerla fuori dalla tua quotidianità.

Venezuela

Quali sono le prospettive di un paese in cui si trovano perle preziose di creato che rischiano una violenta estinzione (cf. qui), che vive dell’eredità instabile dello chávismo impersonata da Maduro e dal suo governo, rimanendo comunque esposto all’egemonia nord-americana che continua a controllare i paesi latino-americani?

Il successo di Chávez fu dovuto soprattutto a un linguaggio politico capace di attrarre il consenso dei ceti più poveri della popolazione venezuelana, che trovavano in esso un riconoscimento mai conosciuto prima di allora. La capacità di interloquire con gli esclusi e gli invisibili a una politica attenta solo agli interessi dei venezuelani abbienti rimane tutt’oggi il lascito politico che assicura un certo consenso al governo attuale – per quanto discutibili siano le sue forme di dirigenza del paese.

Ma tutto questo non è avvenuto senza un prezzo da pagare, proprio da quella parte della popolazione venezuelana che aveva visto in Chávez una sorta di liberatore dalla sua eterna condizione di marginalità servile. In primo luogo, il prezzo del risentimento che i venezuelani di immigrazione (recente o remota) hanno sviluppato nei confronti di quella parte di concittadini che potremmo definire «autoctona» in senso lato.

Si tratta di un risentimento politico, non razziale come quello che riguarda i poveri, legato al fatto di veder salire sulla scala del benessere una fetta di popolazione «autoctona» (funzionari del governo) che prima non aveva accesso agli spazi privilegiati dei venezuelani di immigrazione (dalle scuole ai club sportivi, dai quartieri benestanti alle spiagge private).

Se la spaccatura razziale si muove rispetto alla condizione sociale, il risentimento politico si accorda rispetto alle tonalità della pelle: tra venezuelani tendenzialmente bianchi e venezuelani tendenzialmente di colore – considerati, questi ultimi, il frutto di privilegi concessi dal governo, ma antropologicamente inadatti ad assumere i ruoli e lo status che hanno ricevuto.

In questo, lo chávismo ha creato una nuova classe sociale che si è andata ad affiancare alla condizione di benessere economico e di privilegi quotidiani prima accessibile solo al venezuelano tendenzialmente bianco. Rimane il grande resto della popolazione, i poveri delle grandi città e gli abitanti delle zone rurali del paese – oltre ai popoli indigeni che abitano le aree dell’Amazzonia venezuelana.

Un resto di cui e a cui il linguaggio ereditato dallo chávismo continua a parlare, o a pensare di parlare, che rappresenta ancora una larga base su cui Maduro e il suo governo attingono assenso. Un linguaggio politico, però, che rimane inerte, senza produrre reali cambiamenti strutturali nel vissuto di questa parte della cittadinanza.

L’esigenza di Maduro di ostentare il consenso su cui può fare conto, anche a costo di paralizzare il traffico della capitale, inscena una forza popolare che sente di essere fragile – e il cui destino politico non dipende solo da sé o dalla volontà dei venezuelani.

Il paese guarda, infatti, con preoccupazione alle prossime presidenziali degli Stati Uniti. E con ancora maggiore preoccupazione si prepara a una eventuale rielezione di Trump. Al di là delle ragioni addotte, Trump non sopporta Maduro; e la lunga mano dei servizi americani è stata una delle ragioni delle due grandi recessioni economiche degli anni 2014-2015 e 2016-2017 – a cui è conseguita la quasi totale mancanza di generi di prima necessità tra il 2017 e il 2019. Periodo, questo, in cui la strategia dell’amministrazione Trump ha incentivato la condizione di disagio complessivo della popolazione venezuelana, nell’auspicio di indurre la caduta di Maduro per ragioni apparentemente interne al paese venezuelano.

Se un’eventuale nuova amministrazione Trump volesse riprendere questa politica nei confronti del Venezuela, non potrebbe giungere all’esisto desiderato senza un apporto decisivo da parte dell’esercito del paese. Attualmente, però, il personale militare rappresenta uno degli organi del governo venezuelano più curato e avvantaggiato da Maduro; che, al momento, scambia l’appoggio militare con un gioco di concessioni e favoritismi nei confronti delle figure apicali (soprattutto per ciò che concerne i diritti di proprietà nella regione amazzonica).

Ma l’incertezza per il futuro del paese non è solo geopolitica, ma anche radicata nelle aspirazioni della popolazione per le generazioni più giovani. Il legame dei cittadini venezuelani di immigrazione con il paese è sostanzialmente flebile. I genitori di questa coorte della popolazione preparano con cura il cammino dei loro figli per una uscita definitiva dal paese (e, se possibile, anche dall’America Latina).

Non diverse sono le aspirazioni delle famiglie più povere i cui figli sono riusciti a intraprendere un iter educativo scolastico. Anche i genitori di questa parte della popolazione sognano per i loro figli un futuro non venezuelano, che sembra essere l’unica via percorribile di un riscatto dalla povertà.

Fedeli alla terra sembrano al momento restare i funzionari di governo, che godono di privilegi contingenti e non sicuri, e le religiose e i religiosi venezuelani.

P. Antonio Teixeira e p. Manuel Lagos.

P. Antonio Teixeira e p. Manuel Lagos.

Vita religiosa e Chiesa latino-americana

La vita religiosa venezuelana, ma più ampiamente anche quella di tutta l’America Latina, si trova oggi in un momento di soglia – caratterizzato dalla fine della stagione missionaria. Nelle comunità i religiosi e le religiose non nati in Venezuela iniziano a essere oramai una minoranza, con il conseguente passaggio di mano anche nella dirigenza e progettualità delle congregazioni.

Passaggio delicato perché chiede un lavoro e un discernimento sul passato, sul modo di declinare il carisma nel contesto venezuelano e latino-americano, sulle opere iniziate in fase missionaria rispetto alle quali si sente l’urgenza evangelica di fare delle scelte – siano esse di continuità o di discontinuità.

Anche tratti portanti e ancora oggi condivisi, ricevuti dalla storia che ha generato una vita religiosa propriamente venezuelana, chiedono di essere riletti e rivisitati a partire dalla consapevolezza della fine della stagione missionaria. Stagione in cui, ad esempio, l’opzione preferenziale per i poveri era stata assunta con toni ideologici e con prospettive politiche; che in questo momento le prime generazioni pienamente venezuelane di religiose e religiosi sentono di dover fare propria in chiave più marcatamente pastorale – questo senza diminuire, né diluire, l’impatto sociale di questa opzione nel contesto odierno della vita del paese e del continente.

Una presa di distanza critica dal profilo ideologico dell’opzione preferenziale per i poveri significa un più forte radicamento nell’immaginario evangelico del Regno, con una sua conseguente liberazione da una cornice politico-teologica che è legata anche a una particolare contingenza della storia del continente latino-americano. Cornice, questa, divenuta oramai inattuale per una convinta riproposizione di questa opzione all’interno del quadro attuale dell’America Latina.

Il senso di fedeltà ai poveri, unito alla rilettura della fase missionaria che ha caratterizzato la vita religiosa e la Chiesa in America Latina dopo il Vaticano II, sono il modo di vivere la fedeltà a una terra venezuelana segnata dal desiderio diffuso di essere lasciata. L’immaginario del Regno diventa il codice di una prassi pastorale impegnata a creare l’abitabilità sociale del paese e a custodire quella ecologica perché la casa-natura delle popolazioni indigene possa rimanere la loro dimora.

Un’idea di teologia

La Facoltà teologica dell’Università cattolica di Caracas si è impegnata da qualche tempo a un ripensamento della posizione della teologia nella vita culturale e sociale del paese. Esemplare in merito la Settimana teologica di quest’anno, incentrata sulla lettera Laudate Deum di papa Francesco, dove la parola è stata lasciata a esperienze di prassi sul campo della vita umana – affinché fossero esse a istruire il quadro dello stesso discorso teologico.

Sono state le comunità dell’Amazzonia venezuelana, i bambini e le bambine dei barrios di Caracas, ad aprire i lavori della Settimana – dove i teologi, le teologhe e gli studenti di teologia sono stati degli ascoltatori, esposti alle provocazioni della vita intese non solo come referente realistico del discorso teologico, ma anche come suo principio e destinazione.

L’impianto della Settimana è l’esito di un progetto che ha trovato nella creazione del Centro interdisciplinare di teologia uno dei suoi cardini. Il Centro nasce dalla consapevolezza che la teologia si è oramai addormentata nella sua abitudine di parlare di sé a se stessa, senza neanche preoccuparsi di non trovare più nessun ascoltatore nei contesti di vita sociale e culturale del paese. Uscire dallo stordimento di questo narcisismo teologico è l’urgenza colta dalla Facoltà di Caracas, ed è anche un modo di assicurare il rilievo accademico della disciplina nel contesto dell’Università di cui è parte.

Lavorare fianco a fianco con altre discipline e saperi, dando in questo modo il proprio apporto al superamento dello scollamento che regna tra le facoltà universitarie, significa immaginare una nuova modulazione della stessa intelligenza evangelica della fede. Ma significa anche lasciare che altri lavorino sulla teologia, affinché questa possa apprendere le abilità per arrivare a dire parole capaci di raggiungere efficacemente l’umano nei suoi contesti di vita, di lotta, di sofferenza.

Riprendendo un passaggio della Settimana in grado di illuminare questo apprendimento necessario a cui la teologia si deve esporre, si potrebbe che è solo la contaminazione con il diritto che permette di passare dall’etica sociale di Laudate Deum e Laudato si’ a un progetto civile di giustizia sociale. Ne deriva un senso di parzialità della teologia, che non si può più pensare né come sapere totale né come disciplina più alta.

Chiamata anch’essa a confessare la propria fedeltà alla terra amata da Dio, a escogitare alleanze che la rendano abitabile, dando ragione collettiva del perché è umanamente sensato rimanere ad abitare la terra venezuelana.

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