Chiudiamo il cerchio: da almeno undici anni l’opposizione venezuelana trascina con sé uno strano déjà vu. A ogni elezione c’è l’illusione di aver vinto, almeno fino al tardo pomeriggio. Poi, venuta la sera, comincia a tirare un’altra aria e cambia l’espressione dei volti.
Chi ha vinto?
Il Consejo nacional electoral (Cne), che è l’autorità tenuta a garantire la regolarità del suffragio, tarda a dare i risultati e, nei seggi, comincia a verificarsi qualche irregolarità: i militari cacciano fuori alcuni rappresentanti di lista che dovrebbero tutelare il voto, gli atti di scrutinio che attestano la validità dei risultati non vengono consegnati e il civismo della prima ora diventa tensione. Non più una “fiesta democratica”, ma una guerriglia a bassa intensità, dove i candidati, che qualche ora prima dicevano “paz y reconciliaciòn” cominciano ad adottare un linguaggio più violento, divisivo, disperato.
Entrambe le fazioni rilasciano le prime dichiarazioni con un linguaggio criptico, dicendosi soddisfatte del risultato. A distinguerle sono alcuni slogan che fanno riferimento al cambiamento nel caso dell’opposizione e alla continuità della revoluciòn da parte del presidente uscente.
Dopodiché, annunciato il risultato finale – che dà quasi come vincitore il candidato filogovernativo – iniziano le controversie. Nicolas Maduro si rivolge al Paese dicendo di aver sconfitto «l’imperialismo e l’ingerenza». L’opposizione dice di aver vinto, ma denuncia l’esistenza di brogli e di irregolarità nel processo elettorale.
Sulla base di questi messaggi, migliaia di persone scendono per le strade e protestano senza un indirizzo politico chiaro: bloccano il transito, si verifica qualche episodio di violenza e qualche Paese – Brasile, Cile, Stati Uniti e altri in questo caso – si pronunciano chiedendo un conteggio trasparente e la pubblicazione dei risultati per ogni seggio per verificarne la corrispondenza con l’esito complessivo dell’elezione. Non è ancora accaduto. E probabilmente non accadrà.
Così, le proteste in corso in città come Caracas, San Cristobal e Maracaibo e nelle aree interne del Paese tenderanno a venir meno come è già successo altre volte, l’opposizione perderà la legittimità acquisita negli ultimi mesi e si dovrà ricominciare da capo.
Chi conta i voti?
È più o meno quello il ciclo, o circolo vizioso, che si viene a innescare anche dopo l’ultima elezione presidenziale in Venezuela, tenutesi domenica 28 luglio, nella quale il Cne ha dichiarato vincitore Maduro con poco più del 51% dei voti seguito da Edmundo Gonzalez Urrutia con il 44%.
Risultati contestati in tempo reale dalla leader dell’opposizione, Maria Corina Machado, secondo la quale i veri risultati danno vincitore Gonzalez Urrutia con il 70% dei voti a suo favore. Una tesi plausibile dal momento in cui, a differenza di altre elezioni, i voti non sono consultabili dalle parti. Cioè, il database prodotto dal sistema smarmatic non è stato condiviso con i candidati coinvolti. Di qui i sospetti e gli appelli a una verifica regolare del processo.
D’altro canto, l’opposizione non ha tutte le prove in mano per dimostrare i risultati argomentati. È vero che ci sono i voti trasmessi in automatico dal sistema elettronico. Tuttavia, per dire che è andata così, occorre essere in possesso dell’atto di scrutinio. Cioè, il documento rilasciato da ogni macchina in cui si vota con i risultati per ogni candidato.
Al momento dell’annuncio da parte del Cne, l’opposizione non aveva che il 30% di questi atti. E dicono che per contestare e impugnare il risultato servirebbe il 100%.
Proprio ieri, Machado e Gonzalez Urrutia hanno annunciato, in conferenza stampa, di essere in possesso del 70% degli atti dai quali risulta che il candidato dell’opposizione avrebbe ottenuto più 6 milioni di voti mentre Maduro poco più di 2 milioni.
Il dramma è che, in questa fase, l’opposizione non sa cosa fare. Anche se dice di saperlo. Perché, in realtà, c’è poco da fare laddove il potere giudiziario, legislativo ed esecutivo sono concentrati nelle mani di un’unica fazione politica, con i funzionari regolarmente iscritti al Partido socialista unido venezolano (Psuv).
Altrettanto improbabile l’ipotesi di Golpe dalle Forze armate, che intonano apertamente cori di sostegno al regime di Maduro.
E non dico impossibile, perché l’America Latina è abbastanza inedita. Ma improbabile. Tant’è che, a sentir parlare i vertici del Tribunal supremo de justicia (Tsj), dell’Assemblea nazionale o delle Forze armate si assiste un’adesione incondizionata al regime di Maduro. Il copione è simile, il linguaggio è il medesimo.
Inoltre, non c’è nulla da fare per la stampa assoggettata dalla costante chiusura di testate giornalistiche e di emittenti radiotelevisive che dicano qualcosa di contrario al regime.
Se, invece, si guarda all’esterno, si coglie l’impotenza di entità come l’Organizzazione degli stati americani (Oas), la Corte interamericana per i diritti umani (Cidh, le sue sigle in spagnolo) e persino dell’ONU, che non sono altro che il tavolo in cui siedono degli Stati sovrani. Non hanno, quindi, la possibilità di intervenire materialmente per applicare le proprie risoluzioni e le sentenze, nel caso della Corte interamericana.
È anche da scartare l’ipotesi di invasioni di campo sul fronte Nord per mano degli Stati Uniti d’America, non intenzionati a sporcarsi le mani per poi magari generare uno stallo peggiore. Men che meno nel proprio continente.
A scanso di eventuali trattative riservate, Maduro, che è già corso a proclamarsi per il suo terzo mandato, cercherà di temporeggiare in attesa che venga meno l’attenzione di Washington, Bruxelles e dei Paesi vicini. E non ci vorrà troppo, considerate tutte le crisi aperte.
Un’opposizione smarrita e ferita
Nel frattempo, a livello interno si attenderà il rientro delle manifestazioni dovuto alla fatica di chi, mettendo la propria vita a repentaglio, coglierà l’assenza di strategia da parte di Machado e gli oppositori non disposti a dire la verità. Non hanno cioè un piano B.
E allora è probabile che si riparta da capo: l’opposizione pagherà il conto della propria inerzia vedendo calare il consenso degli elettori. Dopodiché le strade dei partiti che la compongono si divideranno nuovamente: alcuni, come Manuel Rosales, rappresentante di Un nuevo tiempo e iscritto all’Internazionale socialista, vorranno voltare pagina preparandosi all’elezione dell’anno prossimo verso l’assemblea nazionale. Qualcun altro, come Machado, insisterà ancora sulla contestazione dei risultati comunicati dal Cne che hanno dato Maduro come vincitore.
Nel frattempo, altre migliaia di famiglie andranno via in aereo, in pullman o a piedi, a seconda del ceto di appartenenza. Sono già 8,5 milioni quelli che si trovano fuori Venezuela secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Ora, secondo le proiezioni, rischiano di superare i 10 milioni.
Tal è la situazione di una società condannata, quasi come Sisifo, a portare in alto le proprie illusioni – talvolta con sforzi incalcolabili – vedendole poi cadere giù proprio quando mancava poco per arrivare al traguardo.
Poi, si scende e si riparte da capo. Un’altra elezione, un altro ciclo. Se ne riparlerà nel 2030, se non accade prima qualcosa di straordinario.