La questione non è quello che fa o ha fatto Patrick Zaki, ma quale trattativa c’è stata tra il governo Meloni e il regime di Al Sisi per ottenere la grazia che gli ha permesso di rientrare – provvisoriamente – a Bologna.
Una scelta e le sue conseguenze
La scelta di Zaki di rientrare con un volo di linea invece che con l’aereo di Stato è stata interpretata in mille modi diversi: uno sgarbo al governo di destra da parte di un attivista per i diritti, una dimostrazione di essere indipendente dalla politica, un’ingenuità, un segnale di normalità indirizzato più al regime egiziano che al governo italiano, visto che poi pare che Zaki voglia vivere in Egitto, non in Italia.
Di sicuro c’è soltanto che la decisione di Zaki ha evitato che si creasse la liturgia della liberazione dell’ostaggio che tanti imbarazzi ha suscitato in passato: l’arrivo col volo di Stato a Ciampino, le foto di rito, le strette di mano. E il dilemma su quali facce mostrare: soltanto i ministri? I diplomatici, come si faceva di solito? Oppure anche i vertici dei servizi segreti, a certificare il loro ruolo?
Visto il caos ai tempi della liberazione di Silvia Romano nel 2020 – con successiva baruffa a colpi di retroscena sui giornali per attribuire meriti a questo o quel corpo dello stato – forse il governo dovrebbe ringraziare Zaki che ha evitato tutti questi problemi.
Perché se Zaki fosse tornato con il volo di Stato e con le foto ricordo con le autorità, molte domande sgradevoli sarebbero diventate inevitabili: se Zaki era un ostaggio, così come Silvia Romano sequestrata in Kenya nel 2018, di chi era esattamente ostaggio? Del governo di Al Sisi?
Perché il suo processo non ha neanche mai provato a sembrare una cosa seria, con ritardi continui nelle udienze e capi di imputazione che cambiavano tra una udienza e l’altra.
L’ultima versione era che la sua carcerazione preventiva durata quasi due anni si doveva a un articolo sulla persecuzione dei cristiani copti nel 2019, non a certi post Facebook come era all’inizio.
L’ombra di Regeni
Fin dall’inizio l’intero caso Zaki è stato letto come una risposta al caso di Giulio Regeni, assassinato nel 2016 in un intreccio di complicità, ricatti e servizi segreti che non poteva essere ignoto al governo di Al Sisi. E che sullo sfondo aveva i complessi rapporti tra Italia ed Egitto, che riguardano l’energia e il ruolo dell’ENI, ma anche l’influenza del Cairo sulla Libia, zona strategica per l’Italia tra petrolio e migranti. Va ricordato che Regeni è stato rapito mentre c’era in visita ufficiale al Cairo un ministro italiano, l’allora titolare dello Sviluppo economico Federica Guidi.
Negli ultimi mesi si è capito che la famiglia Regeni non avrà mai giustizia. I PM di Roma hanno identificato da tempo gli 007 egiziani accusati dell’omicidio: Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abedal Sharif.
Ma il processo è fermo perché, per quanto sembri incredibile, la giustizia italiana non riesce ad avere la certezza che gli accusati siano informati delle imputazioni e possano difendersi, visto che le autorità egiziane non collaborano neppure per notificare gli atti agli imputati.
Sulla questione dovrà pronuciarsi la Corte costituzionale, alla quale il giudice per le indagini preliminari di Roma ha rinviato la questione. Ma sul piano politico la questione è diventata molto chiara quando Giorgia Meloni e il ministro degli Esteri Antonio Tajani si sono rifiutati di riferire in tribunale sulle interlocuzioni con Al Sisi.
L’avvocatura dello Stato ha argomentato che
«il contenuto dei colloqui si inscrive nell’ambito delle relazioni di politica internazionale intrattenute tra l’Italia e la Repubblica Araba d’Egitto, e riguarda, quindi, attività svolta nell’esercizio di una delle più rilevanti prerogative dell’azione di Governo, nella sua più specifica accezione di politica estera»
Una linea sostenibile in via di principio, ma che finisce per confermare che di Regeni Meloni, Tajani e Al Sisi abbiano parlato. Altrimenti sarebbe bastato dire in tribunale «abbiamo discusso di energia, migranti e clima ma non di ricercatori ammazzati per dare messaggi all’Italia».
Zone d’ombra
Dopo la liberazione di Zaki, il sito di palazzo Chigi informa che
«Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha avuto una conversazione telefonica con il Presidente dell’Egitto Al Sisi, in particolare per ringraziarlo per la grazia concessa a Patrick Zaki, un gesto di grande importanza che è stato molto apprezzato in Italia».
Non è ben chiaro di cosa lo ringrazi, visto che Zaki era in carcere con procedure che violano ogni stato di diritto, dopo un processo tutto politico, e che ha avuto una conclusione coerentemente politica, con la grazia presidenziale.
Ci sono quindi molte zone d’ombra nel caso Zaki, quelle che riguardano il volo di Stato o il suo curriculum di studi bolognese o le sue prospettive accademiche sono molto secondarie e finiscono per oscurare la vera questione. Cosa c’era dietro la morte di Regeni? E cosa è successo ai rapporti tra Italia ed Egitto prima e dopo quell’omicidio nel 2016?
Zaki è stato un ostaggio, che adesso finalmente ha ottenuto la liberazione. Ma per liberare gli ostaggi di solito si pagano riscatti. E sarebbe opportuno interrogarsi su cosa abbiamo concesso al dittatore egiziano.
Pubblicato sulla newsletter Appunti il 24 luglio 2023