Per un anno, l’esercito israeliano è avanzato come un rullo compressore a Gaza, distruggendo tutto sul suo cammino, senza nessuna strategia apparente. Il governo aveva annunciato un obiettivo – «distruggere Hamas» – ma nessuno poteva seriamente credere che la cosa fosse possibile.
Difatti, un anno più tardi, Hamas non solo non è stato distrutto, ma è stato rafforzato dall’iniziativa israeliana, se non nell’immediato, di certo negli anni a venire.
Il massacro della popolazione palestinese, infatti, non può non alimentare un’ostilità inestinguibile nei confronti di Israele non solo tra coloro che sopravviveranno a Gaza e in Cisgiordania, ma anche tra gli arabi e i musulmani nel mondo – in particolare, ovviamente, tra quelli di origine palestinese.
Le recenti elezioni in Giordania – dove si stima che la popolazione di origine palestinese componga il 40 per cento del totale – hanno visto il successo della branca locale dei Fratelli musulmani, lo stesso movimento transnazionale da cui è nato Hamas. Insomma, per farla breve, Israele ha oggi molti più nemici e molto più agguerriti di quanti ne avesse prima dell’orrendo pogrom del 7 ottobre.
Se la “strategia” fosse davvero stata la «distruzione di Hamas», allora bisognerebbe dire che è fallita: per quel che si sa, i combattenti del movimento islamista continuano a dare del filo da torcere a Tsahal nonostante le distruzioni, i morti, la decapitazione della sua leadership, e nonostante un’inferiorità di risorse e mezzi flagrante e in continuo assottigliamento.
Il fallimento di quella operazione, però, comporta un prezzo da pagare altissimo anche per gli israeliani negli anni a venire: la loro sicurezza sarà costantemente sotto minaccia, minando la vera raison d’être del (velleitario) progetto sionista di un paese in cui gli ebrei sarebbero stati finalmente al riparo dalle persecuzioni che li hanno regolarmente colpiti lungo i secoli.
Ma la strategia non poteva essere la «distruzione di Hamas». Non occorre aver studiato Clausewitz per sapere che, in un conflitto, la strategia è la definizione dell’obiettivo politico che si vuole raggiungere.
Il governo israeliano si è sempre rifiutato di dire esplicitamente cosa sarebbe dovuto succedere dopo l’occupazione militare di Gaza. In questo modo, l’attacco alla Striscia diventava una finalità in sé, una pura vendetta, feroce, cieca e sproporzionata. Se una strategia c’era, evidentemente non la si poteva rendere pubblica.
Ora, con le operazioni militari in Cisgiordania e soprattutto il massiccio attacco a Hezbollah sembra che quella strategia fin qui taciuta cominci ad emergere dalle nebbie della guerra.
L’ipotesi che il vero obiettivo di Israele – e non del solo Netanyahu – sia di approfittare del demente attacco del 7 ottobre per fare terra bruciata intorno alle proprie frontiere e all’interno dei territori occupati diventa sempre più concreta.
Perché non funzionerà
Ovviamente, se Hamas non è stata sradicata, ancora meno lo sarà Hezbollah. L’idea che eliminando i capi del movimento si possa eliminare il movimento è un’assurdità resa possibile dall’uso indiscriminato che viene fatto della definizione di «terrorismo».
Ormai, l’abitudine di qualificare come terroristi i propri avversari si è diffusa come una metastasi, al punto non solo di aver inflazionato, e dunque svalutato, il termine, ma anche di averlo reso inutile per qualunque intento esplicativo.
Certo, sia Hamas che Hezbollah hanno frequentemente usato mezzi terroristici nel senso tradizionalmente riconosciuto – colpire ciecamente la popolazione “nemica” allo scopo di infondere in essa, per l’appunto, un incontrollato terrore.
L’uso di quei mezzi è d’altronde uno degli indizi dell’inettitudine politica dei movimenti che se ne servono; infatti, come è noto a chi se ne sia occupato seriamente, il terrorismo è l’arma degli sconfitti.
Ma Hamas e Hezbollah non sono le Brigate rosse né la Baader-Meinhof. Quelli erano minuscoli gruppetti di «pazzi e somari», per riprendere la calzante definizione data da Karl Marx ai terroristi del suo tempo, Mazzini in testa, che immaginavano di poter fare la rivoluzione in quindici piazzando bombe a destra e a manca.
Al contrario, Hamas e Hezbollah, pur non essendo meno «pazzi e somari», sono profondamente radicati tra le loro popolazioni, e in un certo senso le rappresentano politicamente più di quanto non accada a molti partiti nei regimi democratici.
Alle uniche elezioni mai svoltesi tra la popolazione palestinese, Hamas ha ottenuto una vittoria schiacciante e umiliante sul tradizionale Al Fatah di Yasser Arafat, anche se tutti i sostenitori dei «valori democratici» sono stati ben felici di vedere quella vittoria annullata manu militari dagli sconfitti. E chi è riuscito a raccogliere gli umori dei palestinesi ci dice che, se si votasse oggi, Hamas otterrebbe un successo trionfale.
Hezbollah, per canto suo, rappresenta politicamente la grande maggioranza della popolazione sciita del Libano.
Certo, Hamas e Hezbollah sono stati, lungo la loro storia, incapaci di dare alle popolazioni che indegnamente rappresentano un filo seppur tenue di progetto politico.
Ma ciò non toglie che nuotino, come avrebbe detto Mao Zedong, nel popolo e col popolo come pesci nell’acqua; per questo, tagliarne la testa è come tagliarla all’Idra di Lerna.
Certo, se Ismail Haniyeh e Hassan Nasrallah erano quanto di meglio le leadership di Hamas e Hezbollah rispettivamente erano stati in grado di produrre, i loro successori saranno certamente peggio, il che vuol dire che, per i palestinesi, si prepara un avvenire ancora più cupo del presente.
I rischi per gli israeliani
Il governo che siede a Gerusalemme sta però preparando un avvenire sempre più cupo anche per gli israeliani. L’idea di spostare le frontiere di sicurezza sempre più avanti significa solo spostare di qualche chilometro le minacce, non certo eliminarle. Non solo, ma significa indebolire il fronte interno.
È vero che l’assassinio di Nasrallah ha fatto contingentemente lievitare il livello di popolarità di Benjamin Netanyahu, ma il prolungarsi del conflitto – e più ancora una possibile invasione del Libano – può nel medio termine sfiancare gli israeliani: l’economia stagna, le declinanti risorse vanno in priorità all’esercito, molti sono fuggiti dalle proprie case, quasi tutti hanno un parente o un amico al fronte, dove le perdite potrebbero lievitare a livelli intollerabili, senza contare gli ostaggi dimenticati in Gaza; e, anche se il primo ministro fa il gradasso all’ONU, e Joe Biden balbetta in attesa del verdetto del 5 novembre, il debito verso gli Stati Uniti si accumula inesorabilmente.
Certo, le placche tettoniche della politica mediorientale si sono smosse sensibilmente. Certo, i nemici dell’Iran nella regione sogghignano sotto le loro barbe, ma non possono, o non possono più, sostenere apertamente Israele, per il timore che l’esempio giordano tracimi la dimensione elettorale e si riversi per le loro strade. Nel qual caso, l’avvenire sarà più cupo per tutti.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 30 settembre 2024
Mai visto un cristiano che abbia capito qualcosa di un ebreo. Tante parole ma nemmeno un concetto giusto. Che tristezza!
Sì, “una pura vendetta, feroce, cieca e sproporzionata”!
Concordo in toto! Il massacro della popolazione palestinese alimenta “un’ostilità inestinguibile” nei confronti di Israele! Del resto Netanyahu non vuole due stati per due popoli… Israel uber alles!