Zen condannato: accordo in salita

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Joseph Zen

Arrestato l’11 maggio e rimesso in libertà su cauzione, il card. Jospeh Zen è stato condannato dal tribunale di Hong Kong a un’ammenda di 500 euro il 25 novembre. Condannati con lui altri cinque componenti del consiglio del «fondo umanitario 612» che raccoglieva offerte liberali per sostenere lo spese giuridiche e talora organizzative dei difensori della democrazia di Hong Kong.

Accusato di «collusione con forze straniere», in base alla nuova legge sulla sicurezza nazionale Zen rischiava fino all’ergastolo. Poi, per le proteste proveniente da ogni dove in favore del novantenne prelato, l’amministrazione ha di molto abbassato l’accusa: una (presunta) scorrettezza amministrativa.

Il fondo acceso nel 2019 e alimentato da centinaia di migliaia di sostenitori gestiva un patrimonio di 33 milioni di euro, prima di chiudere nell’agosto 2021. Nessuno ha accusato il cardinale di essersi appropriato di nulla. Il suo stile personale, austero e sobrio, non è cambiato.

Tribunali, strumento politico

Tramontata l’accusa maggiore, l’acceso dibattito in tribunale ha visto la difesa smontare le imputazioni: un fondo liberale non è soggetto all’iscrizione chiesta ai movimenti finanziari; non si applica retroattivamente la legge; la disposizione contrasta con la Costituzione di Hong Kong ecc. Per l’accusa, l’iniziativa era politica, l’iscrizione andava fatta e il riferimento è ormai alla legge sulla sicurezza nazionale.

A testimonianza del radicale mutamento dei tribunali locali: dal riferimento alla common law (il sistema anglosassone) alla sudditanza al partito. Con la legge di sicurezza nazionale (giugno 2020) ci sono stati 220 arresti di oppositori; solo 140 con una accusa specifica; 40 sono stati giudicati e tutti condannati. Forti rischi per tutti i 47 candidati nel campo democratico delle ultime elezioni.

La scure è su tutti gli attivisti libertari e Zen è uno degli emblemi. «Non si capisce bene quello che gli accusatori cercano, ma si capiscono benissimo le intenzioni sottese al processo» − è l’ammissione di un osservatore locale.

Zen ha chiesto ai suoi di non enfatizzare il caso, ai giornalisti di presentarlo come cittadino, a Roma di tenere un basso profilo. La derubricazione dell’accusa è l’ammissione delle autorità locali di aver commesso degli errori nella gestione del caso. Verso di lui si è alzato un «cartellino giallo», prima di provvedimenti più severi.

Ma il senso complessivo antidemocratico è evidente, come mostrano le condanne di Martin Lee, considerato il «padre della democrazia», e Jimmy Lai, il magnate dei media liberi di Hong Kong. L’anno scorso l’Accademia cinese delle scienze sociali ha indicato la minoranza radicale di cattolici e protestanti come la fonte dei disordini nella città-territorio. L’amministrazione vuole togliere ad essa ogni influenza.

A salvare il salvabile si applica l’attuale vescovo, il gesuita Stephen Chow Sau-yan, che chiede una precisa determinazione della legge sulla sicurezza nazionale per evitare che l’ambiguità delle formule copra ogni abuso. Esorta i cittadini a non arrendersi, consapevoli del nuovo clima: «Sediamoci e guardiamo con attenzione a quando le nubi si alzeranno. Questo è un tempo per discernere, anziché per agire».

Un focoso galantuomo

A difesa di Zen si è alzata la voce del card. Fernando Filoni. Ricorda la limpida testimonianza cristiana della sua famiglia di Shanghai anche nel difficile momento dell’occupazione giapponese, la fuga a Hong Kong, la sua ordinazione sacerdotale nel 1961 ed episcopale nel 1996. Il suo servizio è finito nel 2009. Sottolinea la sua disponibilità a collaborare con Jin Luxian, vescovo «patriottico» di Shanghai, la sua integrità morale e intellettuale.

E conclude: «Il card. Zen non va condannato. Hong Kong, la Cina e la Chiesa hanno in lui un figlio devoto, di cui non vergognarsi. Questa è testimonianza alla verità». Ma la sua figura ha anche aspetti più discussi. Il suo radicale rifiuto all’accordo sino-vaticano ha assunto forme estreme.

A Roma ricordano le sue urla nell’ambito della Commissione Cina, le accuse al papa di servilismo davanti alla diplomazia, gli insulti di bugiardo e di spergiuro al segretario di Stato, card. Pietro Parolin, la condanna della «volontà» di Roma di soffocare il cattolicesimo «illegale». Fino al suo schieramento a favore del tradizionalismo liturgico più estremo, alla sua frequentazione con la destra americana più settaria e il consenso alle farneticanti affermazioni di mons. Carlo Maria Viganò sulla cupola di pedofili che presiederebbe la globalizzazione. La reticenza vaticana – ma vi è un intervento a suo favore nel momento dell’arresto – non è imputabile solo alla distanza fra dialogo (Santa Sede) e opposizione (Zen), ma anche al venir meno della possibilità di mediazione.

Accordo: una violazione e tre guadagni e molte domande

La conferma dell’accordo «provvisorio» fra Cina e Santa Sede (22 ottobre) è stata annunciata in tono minore, nella consapevolezza della repressione in atto nel  paese asiatico e con la rinnovata ammissione delle necessità di migliorarlo in futuro. Una grave infedeltà a quanto sottoscritto si registra il 24 novembre. A Nanchang è stato installato come vescovo ausiliare mons. G. Peng Weizhao. La scelta, avverte la Santa Sede, non è in conformità al dialogo e all’accordo. Tanto più grave in ragione delle «lunghe e pesanti pressioni delle autorità locali». Il patto riguarda, infatti, un tema centrale per la Chiesa cattolica: la scelta dei vescovi.

Dalle diocesi (dall’associazione patriottica) arrivano le candidature e fra i tre nomi proposti il papa ne sceglie uno. Può anche rifiutarlo e chiedere una seconda terna. Come è già successo. L’intento «è quello di garantire che i vescovi cinesi possano esercitare il loro compito episcopale in piena comunione con il papa. La ragione di tutti è custodire la valida successione apostolica e la natura sacramentale della Chiesa cattolica» (card. Luis Tagle).

Aver fermato la possibilità di uno scisma difficilmente gestibile è uno dei punti di forza dell’accordo. L’augurio è che vengano progressivamente superate le divisioni interne. Nessun indebito trionfalismo e nessuna illusione di aver risolto tutti i problemi. Fra questi: la nomina di una quarantina di vescovi che mancano all’appello, la definizione amministrativa delle diocesi, il riconoscimento dei vescovi «sotterranei», una maggiore libertà di comunicazione con le Chiese nel mondo, il rafforzamento della Conferenza episcopale (rispetto all’Associazione patriottica) e una maggiore libertà di annuncio.

Il card. Pietro Parolin ha indicato tre frutti positivi: la comunione col papa di tutti i vescovi cattolici; le sei nuove ordinazioni episcopali; i sei riconoscimenti ai vescovi clandestini operati in questi anni.

La declinazione della sinizzazione

Fra le difficoltà che permangono vi è la reiterata incomprensione sui termini. Parlare di «indipendenza» della Chiesa in Cina e poi firmare la «dipendenza» dal papa è poco coerente. Così una pratica amministrativa inutilmente rigida non riconosce spazi all’obiezione di coscienza di alcuni preti rispetto alla dichiarazione scritta di appartenenza all’associazione patriottica.

È curioso che nei documenti interni alla Chiesa cattolica in Cina non vi sia mai un riferimento esplicito all’accordo. Inoltre, la scarsa comunicazione impedisce al centro vaticano un’accurata verifica delle candidature proposte.

A questo si aggiunge la declinazione pervasiva della «sinizzazione» delle religioni (cf. SettimanaNews, qui). Fin dove si può spingere l’inculturazione della fede? Il potere comunista, che non è riuscito a cancellare le fedi nell’aggressione diretta (rivoluzione culturale), pretende lo stesso risultato svuotandole dall’interno?

Sulla plausibilità di queste e altre domande relative alle libertà civili si appoggiano le molte critiche che vengono dai tradizionalisti cattolici, come il card. Gerhard Müller, e da ambienti politici e diplomatici occidentali, alle prese con il ricompattamento richiesto dall’aggressione russa all’Ucraina e la ridefinizione dell’egemonia mondiale.

Cito solo la voce del responsabile della Commissione statunitense sulla libertà religiosa, Stephen Schneck. La Santa Sede «dovrebbe ripensare alla sua decisione di ballare con Xi (Jinping) su tutta questa vicenda… È difficile immaginare che qualunque cosa si possa sperare sui tempi lunghi (si declini) con la situazione immediata sul terreno per i cattolici in Cina».

La scommessa di Roma

Ma la scommessa vaticana è appunto sui tempi lunghi. Essa significa resistere alla polarizzazione in atto fra Occidente e Cina, impedendo una declinazione bellica del dissenso. Vuol dire anche dare credito ai cambiamenti, che possono apparire millimetrici, del linguaggio cinese.

L’accordo è tendenzialmente coerente con la destrutturazione dell’assoluto ideologico ed è un segnale promettente per l’interno: non tutto è riportabile al partito. Per molte cancellerie e per una parte del mondo cattolico tutto questo è ingenuità. Ma la scommessa per una maggiore libertà futura e una compresenza non conflittuale fra le civiltà maggiori sarebbe un bene per tutti.

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