Faceva davvero freddo sulla Piazza Rossa quel giorno – il 7 novembre 1987 – mentre, sulla tribuna d’onore a lato del mausoleo di Lenin, accanto ai dirigenti dei partiti comunisti di tutto il mondo riuniti intorno al Segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Michail Gorbaciov, assistevamo alla grandiosa sfilata per il 70° anniversario della rivoluzione di ottobre.
Per gli sprovveduti ospiti occidentali (chi scrive scoprì di essere l’unico invitato di estrazione cattolica per una certa notorietà acquisita come presidente delle Acli nella contesa sull’installazione ad Ovest e ad Est degli euromissili) quel gelo avrebbe avuto effetti fisicamente letali se non fossero intervenuti due rimedi: il prezioso consiglio di indossare il pigiama sotto il vestito e la provvidenziale presenza di un… venditore di wodka.
Poi lo spettacolo riattivò la riflessione. Davanti a noi sfilava la storia del bolscevismo con i suoi trionfi e le sue miserie. Dal nucleo iniziale di adepti, all’inizio del Novecento era nato, nel giro di pochi anni, un partito che – come scrive il biografo di Lenin, Abdelaram Allan – era stato «in grado di prendere il potere in Russia», mentre «poco più di un’altra generazione era stata sufficiente perché il comunismo si estendesse su un terzo dell’umanità e aspirasse al dominio del mondo».
Dentro la perestrojka
Le immagini di quei giorni mi tornano in mente mentre l’evento allora ricordato starebbe per compiere il suo 100° (virtuale) anniversario; virtuale, perché quella del 1987 fu davvero l’ultima solenne rievocazione della rivoluzione sovietica.
Ma nessuno, allora, poteva immaginare che all’impero ideologico-militare dell’Unione Sovietica sarebbero rimasti poco più di due anni di agonia.
Quelle giornate di Mosca, brividi, coreografie e fuochi d’artificio a parte, avevano del resto un’attrattiva particolare. Era in corso da alcuni anni il tentativo di Gorbaciov di realizzare un progetto innovativo della struttura dell’Unione Sovietica, indicato come «riforma radicale» e imperniato su due passaggi fondamentali.
Il primo era la così detta perestrojka (letteralmente «ricostruzione»), che comprendeva una serie di interventi volti alla riorganizzazione dell’economia e della struttura politica e sociale del paese.
Il secondo era la glasnost (che potremmo tradurre con «trasparenza»), che indicava un’apertura inedita sul versante della libertà di espressione e di comunicazione; la discontinuità più rilevante rispetto all’ordine costituito.
Segni di novità
Qualche segno di movimento si coglieva nella diffusione di una stampa “libera” che affiancava e a volte contraddiceva le voci ufficiali (la Pravda e le Isvestia) con dibattiti interessanti anche su temi fino ad allora interdetti come quelli religiosi.
Che non si trattasse solo di propaganda lo avevo percepito in un precedente viaggio nel 1986, avvenuto dopo il disastro di Cernobyl. All’arrivo a Mosca, la versione ufficiale era che si trattava di un’esagerazione della propaganda occidentale. Ma un paio di giorni dopo, in apertura del telegiornale della sera, Vremja, apparve il faccione di Gorbaciov per capovolgere la versione: era stata una vera e propria catastrofe.
Tra le persone con cui avevo contatti c’erano però anche umori di diffidenza e di scetticismo. Dicevano: «Anche ai tempi di Krusciov, quelli della destalinizzazione degli anni 50, avevano promesso un cambiamento di regime, ma poi tutto era tornato come prima».
Il clima di Helsinki
L’ambiente più fiducioso e impegnato nella nuova fase era quello del Comitato per la sicurezza e la cooperazione in Europa, incaricato di curare la realizzazione degli obiettivi dell’Atto Finale di Helsinki riguardanti, appunto, la sicurezza, la cooperazione e i diritti umani nell’area continentale.
Contrariamente a quanto accaduto in Occidente, dove i contenuti di quel testo, firmato nel 1975 dai massimi responsabili dell’Est, dell’Ovest e della Santa Sede, erano presto stati declassati al rango di un qualsiasi papier diplomatico, nell’Unione Sovietica si era scelto di dimostrare che se ne prendevano sul serio gli impegni. Compresi quelli riguardanti i diritti umani e le libertà fondamentali, materia non propriamente congeniale alle dottrine e alla prassi del regime.
Così il documento di Helsinki era stato diffuso in modo capillare e aveva suscitato attenzione e attesa in mezzo al popolo, con un’interpellanza ai gruppi dirigenti: se avete sottoscritto queste promesse, ora dovete mantenerle. La perestrojka veniva anche da qui.
Una parata di larve
Tuttavia, era la presenza a Mosca dei leaders dei paesi comunisti a sollecitare il desiderio politico dell’osservatore: come Gorbaciov avrebbe spiegato i suoi progetti a simili interlocutori e come essi avrebbero reagito?
Qui mi avvalgo di un secondo “fermo immagine” delle celebrazioni. Il luogo è il grandioso auditorium del palazzo dei congressi, enorme macchia di bianco nella scura cornice del Cremlino.
Dentro la sala il colore dominante era il rosso. E la colonna sonora quella, coinvolgente, dell’inno sovietico (lo stesso che si canta ancora oggi in Russia, ma con le parole cambiate). E poi il palcoscenico con la sfilata dei leaders.
Devo dire che già quel giorno ebbi la sensazione di trovarmi di fronte a una sfilata di fantasmi: il bulgaro Ziwcov, il romeno Ceaucescu, il polacco Gerek, il cecoslovacco Jacker (se ricordo bene), il tedesco-orientale Oeneker, l’ungherese Kadar, quest’ultimo con un minimo di colore, secondo soltanto a quello di un aitante Fidel Castro.
In mezzo a questa parata di larve la figura di Gorbaciov esibiva un piglio addirittura esuberante. Spontaneo pensare al vecchio che tramonta mentre il nuovo avanza.
Versione evolutiva
I discorsi non smentirono l’impressione. Quasi tutti apparivano ancorati agli schemi del marxismo-leninismo, anche se i più convenivano sulla inattualità di una riedizione delle vecchie formule di organizzazione internazionale, tipo Comintern o Cominform. Il «partito guida» non era né desiderato né proposto. Ciascuno descriveva lo… stato della rivoluzione nel proprio paese e tutti riconfermavano la propria imperitura fedeltà agli ideali del «grande ottobre».
Viceversa, Gorbaciov non lasciò spazio alla retorica. Fece innanzitutto un’operazione di storicizzazione della rivoluzione di ottobre, presentandola come fattore di liberazione della società russa dall’arretratezza civile e sociale del regime zarista. E poi espose una visione per così dire evolutiva del marxismo come dottrina in grado di interagire nelle diverse situazioni storiche senza rimanere dogmaticamente ancorata alle formule e alle istituzioni superate dagli eventi.
Gli esperti dell’applausometro sovietico mi dissero che il battimano registrato non era propriamente il più intenso. E mi parve la riprova dei lavori in corso, cioè di un tentativo problematico che pareva promettente e che, invece, avrebbe conosciuto una fine prematura.
Effetti oltre il secolo breve
Fin qui i ricordi. Ora le questioni.
Che senso ha rievocare oggi la rivoluzione di ottobre?
Risposta possibile. Ha senso perché gli effetti della rivoluzione di ottobre si sono protratti e hanno influito in estensione e in profondità lungo quasi tutto il corso del XX secolo – oltre gli stessi limiti del «secolo breve» fissati alla caduta del muro di Berlino – e hanno determinato, in tutti i continenti, mutamenti significativi degli ordinamenti sociali e politici.
Indipendentemente dal giudizio etico-politico sulle soluzioni adottate e sui metodi praticati, non sarebbe in ogni caso possibile spiegare quel che è avvenuto in Cina o in Africa senza considerare l’incidenza delle formazioni di ispirazione marxista.
Allo stesso modo, si deve riconoscere che, anche nelle aree in cui la proposta comunista o non ha attecchito o è stata respinta, essa ha introdotto un elemento dialettico nei sistemi in cui ha tentato di affermarsi. Si pensi alle rivendicazioni riassumibili nell’idea di stato sociale, come realizzazione di un’aspirazione di giustizia altrimenti negata.
Difficile immaginare lo sviluppo del riformismo sociale in Occidente senza la spinta del movimento dei lavoratori e, in esso, della componente di matrice marxista.
«E noi faremo come la Russia»…
Altra questione: come spiegare il formarsi e il perdurare del “mito sovietico” malgrado le nefandezze e i crimini di quell’esperienza?
«E noi faremo come la Russia/ chi non lavora non mangerà»: erano le parole di un canto assai diffuso tra i lavoratori ancora negli anni 50. Erano i tempi della massima attrattiva dell’esperienza sovietica, veicolata, oltre che dal vanto per le imponenti realizzazioni del regime attraverso i piani quinquennali, anche dal riflesso della guerra vittoriosa sul nazismo sotto la guida mai troppo lodata di un capo come Giuseppe Stalin. Del quale anche allora in Occidente si conoscevano i crimini, prima che Krusciov li denunciasse; ma c’era in mezzo al popolo la persuasione che i delitti attribuiti al dittatore o non erano veri, o erano… giustificati dallo stato di necessità in cui si era trovata l’URSS. E, in più, da noi c’era l’assicurazione che qualcosa di simile non sarebbe mai potuto accadere in Italia.
Il caso italiano
Qui andrebbe inserita la narrazione delle peculiarità del comunismo italiano: dalla suggestione gramsciana dell’egemonia in luogo della dittatura del proletariato alla “doppiezza” togliattiana, tra la fedeltà a Mosca e la sperimentazione del suo “partito nuovo”, alla dottrina di Berlinguer sull’irreversibilità della scelta democratica contestuale alla proclamazione dell’autonomia da Mosca.
Allo stesso modo, andrebbe studiato a fondo il contributo che all’evoluzione della democrazia italiana (e alle sue molteplici contraddizioni) ha dato il confronto/dialogo tra comunisti e cattolici sia nella costruzione costituente, sia nelle realtà del mondo del lavoro, sia nella sfera culturale.
Ma soprattutto i cattolici più sensibili alla questione sociale dovrebbero interrogarsi su un aspetto cruciale: come mai, venuto meno il fascino del modello comunista, non sono (siamo) stati in grado di proporre ai “compagni delusi” un’alternativa credibile capace di dare risposta, con una strategia di riforme, a quelle medesime istanze di liberazione e di giustizia?
Domanda sull’oggi
Da ultimo, una domanda indiscreta: che cosa resta oggi del «socialismo reale» nella patria del socialismo? È giusto chiederselo, perché nella storia non si distrugge mai tutto quello che si crea.
Che ciò dipenda dai così detti «spiriti nazionali», come si sosteneva nell’800, o da altri fattori non identificati, non sembra ozioso domandarsi quanto di assolutismo si sia trasferito nel terrore giacobino in Francia, quanto di regime di polizia sia transitato dallo zarismo al socialismo reale e, infine, quanto di quest’ultimo – istituzioni e costume – si sia intriso nell’ingranaggio del sistema che gli è succeduto e al quale sono affidati oggi i destini della «madre Russia».
Non perdere la memoria
Come nota Heric Hobsbawm, lo storico del «secolo breve», non solo la gente comune ma anche gli economisti e i politici hanno corta memoria; e per questo è necessaria la presenza di figure – come gli storici – «il cui compito è quello di ricordare ai loro concittadini ciò che questi desiderano dimenticare».
Gli fa eco un altro storico marxista, l’italiano Giuseppe Boffa, quando, sotto il titolo L’ultima illusione (1999), descrive il carattere ingannevole della vittoria del capitalismo sul comunismo e sottolinea che, ormai, per affrontare la dimensione mondiale dei problemi, «il compito sta tutto dalla parte vincitrice». Per cui, in caso di insuccesso, «non attendiamoci nulla di buono e questa volta non avremo nessuno cui dare la colpa».
Ne nasce l’invito a riflettere su concetti di questo genere.
Nessun commento