La situazione nordcoreana non è affatto chiara, perché non sono chiari i motivi e le finalità del leader, il giovane Kim Jong-un, e non è chiaro dove sono arrivate le trattative tra Pyongyang e, separatamente, con Pechino e Washington, gli altri due principali attori della vicenda.
Ma è chiaro che Kim Jong-un non vuole la guerra, perché i suoi atti di provocazione sono sempre attentissimi a non varcare il punto di non ritorno, che sarebbe provocare vittime tra i vicini. D’altro canto, è chiaro che molto non sta funzionando nella trattativa in corso per la rapida successione di test missilistici e ora anche nucleari.
La politica dei due forni
La Nord Corea, in realtà, nasce grazie a un abile gioco di sponda del fondatore Kim Il-song tra Cina e URSS e in questo gioco di sponda cresce e prospera con il figlio Kim Jong-il e ora con il nipote.
Pyongyang, infatti, si inserisce subito tra i dissapori e le sviste che esistevano tra sovietici e comunisti cinesi già negli anni ’40 per avanzare un’agenda coreana distinta da quella dei due grandi vicini. In questa abilità di mettere URSS e Cina l’una contro l’altra è nato anche il coinvolgimento cinese nella guerra di Corea (1950-1953) e poi si è perfezionata tra il 1960 e il 1989, quando i rapporti tra URSS e Cina si ruppero, fino al crollo dell’URSS.
In questo i coreani agirono in maniera diversa dai comunisti vietnamiti. Hanoi, infatti, negli anni ’70, dopo la fine della guerra con gli Stati Uniti, scelse di schierarsi decisamente con l’URSS. La Nord Corea, invece, non ha mai preso una decisione netta e ha sempre applicato una politica dei due forni, senza mai rompere con l’uno o con l’altro.
Questa politica si è infranta con la fine dell’URSS, perché ha messo la Nord Corea tutta nelle mani della Cina e nell’impossibilità di giocare fra due interlocutori di sponda. Dagli anni ’90 fino ad oggi la storia è stata quella di un costante tentativo di ricreare una politica dei due forni, politica che si è affermata man mano, con il miglioramento della qualità degli armamenti che Pyongyang riusciva ad ottenere. In questo processo l’iniziativa dei “Colloqui a 6”, promossa da USA e Cina, di nuovo tagliava la strada ai tentativi di Pyongyang di mettere l’uno contro l’altro. Ma la premessa dei “Colloqui a 6” era che Pechino – e comunque anche Mosca – si fidassero di Washington più di quanto si fidassero di Pyongyang, e viceversa per Washington.
Per motivi che qui sarebbe troppo lungo spiegare però oggi ci troviamo davanti ad una situazione radicalmente diversa da quella che si aprì negli anni ’90. La Nord Corea è riuscita a ottenere ordigni nucleari e missili in grado di lanciarli, quindi è una minaccia strategica globale, non solo per la Sud Corea contro cui ha puntati migliaia di cannoni.
Un problematico retroterra
Ci sono alle spalle il fallimento di due trattative, negli ultimi 20 anni circa, per cui la Nord Corea, ma anche URSS e Cina, sono scettici nella vera volontà americana di arrivare ad una soluzione.
C’è il pregresso della guerra in Iraq di Bush figlio e delle “rivoluzioni al gelsomino” dell’amministrazione Obama in Libia e Siria. Questi interventi sono tutti stati disastrosi e spingono i vicini più interessati – Cina, Sud Corea e Giappone – a preferire lo status quo di un Kim pazzo, all’eventualità di un caos libico, siriano o iracheno. Inoltre, visto che Gheddafi rinunciò al programma nucleare e poi venne deposto e linciato, ciò crea un precedente per Kim, che non si fiderà di eventuali patti che includano il suo completo disarmo.
C’è una sfiducia reciproca crescente tra Cina, URSS e USA, e la questione nord coreana non li unisce, anzi diventa il primo terreno di scontro nella lunga lista delle questioni irrisolte. La Nord Corea ha creato una rete di economia criminale che finanzia il suo programma di armamenti con una molteplicità di fonti, compresi il traffico di droga (meta-anfetamine) e denaro falso (dollari e yuan cinesi). Inoltre, c’è la diffusione delle armi di distruzione di massa. Dato che il costo del nucleare e della missilistica si abbassa sempre di più, Kim può diventare un esempio per ogni dittatore o aspirante tale in giro per il mondo. Ciò complica soprattutto la trattativa con l’Iran.
Arrendersi a Kim Jong-un?
Questa molteplicità di frizioni alle sue spalle ha creato un clima ideale perché la Nord Corea applichi l’arte che ha perfezionato in passato: mettere l’uno contro altro e, in questo, far emergere il proprio potere e la propria forza di ricatto. Nel frattempo, si assottiglia la possibilità di ricorrere a opzioni militari. L’economia sudcoreana cresce e i costi di un eventuale bombardamento del Nord con cannoni tradizionali diventa sempre più impossibile, mentre il miglioramento degli armamenti alza sempre di più il costo di un possibile scontro. I vicini, cioè, sono sempre meno disposti a pagare un eventuale intervento militare, e la Nord Corea alza sempre di più il costo di un’eventuale guerra.
In questa situazione, l’unica risposta possibile parrebbe arrendersi a Kim. Dargli quello che vuole e sperare nel suo buon cuore. Ma, dato che lui non ha dimostrato di avere buon cuore, nessuno ha voglia di cedere e di infilarsi in una situazione che potrebbe essere di fatto senza uscita. Con in più il pesante precedente americano. Dopo l’11 settembre, gli USA non possono rischiare di porsi sotto la minaccia di un pazzo che potrebbe colpire con un missile nucleare Guam o San Francisco.
Un’alleanza strategica contro Pyongyang?
In teoria, una soluzione è possibile: mettere tutti gli attori che hanno a che fare con Kim intorno a un tavolo e concordare prima cosa fare e offrire, chiudendo quindi le porte alla politica dei due forni di Kim. Dato che Kim vorrà sopravvivere, cercherà di alzare il prezzo ma, alla fine, cederà.
Ma oggi è difficilissimo portare USA e Cina intorno a un tavolo per concordare una politica comune su Pyongyang, perché gli uni e gli altri credono che la crisi coreana sia usata per mettere in difficoltà l’altra parte.
I cinesi temono che Washington cerchi di usare la crisi per demonizzare la Cina, dipinta come il burattinaio di Pyongyang; in questo, la crisi nordcoreana sarebbe solo un pezzo di una nuova partita della guerra fredda che si sta giocando in Asia.
Gli americani temono che i cinesi usino la Nord Corea per spaventare vicini e lontani al fine di espellere con le buone o con la forza gli USA dall’Asia, perché, se si risolvesse bene, la Cina si prende il merito, mentre se finisse male, gli USA potrebbero essere accusati di tutto; in questo anche tanti vicini asiatici sostengono gli USA, perché non vogliono l’America fuori dall’Asia per trovarsi poi alla mercé della Cina.
Senza conoscere i dettagli, sembra che ci sia del vero in entrambe le posizioni, con in più Russia e Giappone (per citare i più importanti) che non sono semplici spettatori ma portano contenuti e esigenze proprie sul tavolo. In questo modo nessuno appare avere un interesse vero alla soluzione della crisi e a Pyongyang non rimane che alzare la posta. Così diventa facile che, prima o poi, qualcosa sfugga di mano.
In questa situazione, con interessi nazionali e internazionali così divisi e contrapposti al di là della buona e alacre volontà dei singoli mediatori di ogni paese, è facile continuare nella spirale.
Forse bisognerebbe separare la contingenza della questione nordcoreana dalla questione generale dell’Asia. In una simile prospettiva ci sono problemi e preoccupazioni da non sottovalutare.
A grandissime linee, se la Cina dominasse l’Asia, patria del 60% della popolazione del mondo e della maggior parte della sua crescita economica, dominerebbe tutto. Ciò con un sistema politico ed economico non trasparente e diverso da quello occidentale adottato da ogni altra parte.
Poi, ammesso e non concesso che gli USA accettino questa prospettiva, la recente crisi del Doklam dimostra come ci sia un allineamento di paesi che va dall’India, al Vietnam, al Giappone e forse anche alla Russia, che si opporrebbe al predominio cinese.
La Cina pensa che l’assenza americana piegherebbe tutti. Potrebbe essere vero il contrario: senza l’America questi paesi potrebbero pensare che non resta che affrontare frontalmente la Cina.
Così c’è un problema cinese che è sostanzialmente doppio. La Cina deve, in sostanza, allineare il suo sistema politico ed economico a quello dei paesi sviluppati dell’occidente (vista la dimensione della sua economia) e deve ripensare su una base paritaria la sua politica estera.
D’altro canto, gli ultimi anni di politica americana sono stati costellati da una serie di disastri in Medio Oriente, mentre quasi paradossalmente la politica americana in Asia è stata più saggia e ha dato a tutti un’Asia più prospera e stabile. Quindi, gli USA dovrebbero portare in Medio Oriente la loro politica asiatica e non viceversa.
Chi prenderà in mano la situazione?
Queste sono opzioni di lungo termine, che possono semplicemente essere travolte dalla marcia della crisi nordcoreana. Forse allora occorrerà separare la crisi dalle paure asiatiche in generale, senza però che tale separazione diventi un’arma di propaganda o di ricatto per l’una o l’altra parte. In teoria, quindi, ci sarebbe bisogno di un attore che, senza rivendicare dei meriti, cominci a tessere una trama. Con la fine di fatto dell’ONU o di agenzie internazionali, tale ruolo oggi è vuoto. Inoltre, l’ONU, per come era pensato, non era autonomo ma paralizzato di fatto da varie esigenze in contrasto l’una con l’altra.
Questo nuovo attore potrebbe essere la Santa Sede? I vari attori nella regione vorrebbero un coinvolgimento della Santa Sede? Naturalmente ciò creerebbe poi mille problemi alla Santa Sede, che non è un attore politico ma religioso.
In questa confusione Kim Jong-un oggi è l’unico che ha un obiettivo chiaro che persegue con grande determinazione: ricattare tutti, ed emergere sempre di più come polo di attenzione globale, con tutte le ricadute positive che per lui vengono da questa situazione.