Hospice, cure palliative, stati vegetativi, terapia del dolore, stadio terminale: sono queste le nuove espressioni divenute ormai familiari in un’Europa che invecchia. Un continente abitato da un numero sempre in crescendo di persone la cui unica qualità loro rimasta, per prendere a prestito la definizione di Hanna Arendt nei confronti delle vittime dei totalitarismi, spesso è solo quella di «essere uomini».
L’ultimo Rapporto della Commissione Europea disegna il nostro futuro: entro il 2060 il numero degli ultraottantenni raggiungerà il 12% della popolazione UE, mentre quello tra i 15 e i 64 anni calerà al 57%. Un contesto di Europa “nonna”, secondo la definizione di papa Francesco nel suo discorso al Parlamento di Strasburgo il 25 novembre di due anni fa, in cui si rende sempre più necessario abbandonare vecchi modelli di welfare o di assistenza sanitaria per imboccare strade inesplorate con lo sguardo rivolto ai nuovi scenari che si apriranno di qui a breve.
Un tempestivo appello a «introdurre nella legislazione di ogni stato membro il diritto all’accesso alle cure palliative adattandolo al contesto sociale di ciascuno e stanziando adeguate misure», nella considerazione che «è giunta l’ora per avviare un dibattito pubblico sulle cure palliative in tutta l’UE», è venuto in questi giorni dalla Commissione dei vescovi accreditati presso l’Unione Europea.
Forti di un’attenzione ai vissuti concreti delle persone che si va intensificando con l’accelerazione dei mutamenti sociali, la Comece ha reso noto mercoledì scorso un documento frutto dei lavori di un seminario di studio svoltosi a porte chiuse il 22 febbraio a Bruxelles con la collaborazione di esperti e di Hospitality Europe.
Il contributo – o meglio, il “parere” – è a firma del Working Group di ricerca etica e medica attivato allo scopo di fornire pareri, rapporti e contributi al dibattito UE, in particolare al Gruppo Europeo per l’Etica (l’unico membro italiano chiamato a farne parte è il neonatologo Carlo Bellieni) ed è destinato in prima istanza ai decisori politici e quindi a tutti i cittadini dell’Unione. 34 pagine dense di analisi di natura storico-sociale, fotografia della situazione in Europa, richiamo ai principi di una bioetica laica e cristiana, proposte concrete. Prima che sia troppo tardi.
Le cure palliative
Dopo aver ricordato la definizione contenuta nel Rapporto commissionato dall’Europarlamento nel 2008 («Le cure palliative nel contesto di una fase avanzata o terminale di una malattia, durante gli ultimi mesi o settimane di malattia, rappresentano l’ultima fase dell’assistenza sanitaria e sociale in risposta ai bisogni dei cittadini prima della loro morte»), il testo rende omaggio all’intuizione di un medico inglese, Cicely Saunders. Dopo aver curato centinaia di malati durante il secondo conflitto mondiale, la dottoressa aprì, nel 1967, nella zona sud di Londra il primo Hospice della storia, il St. Christopher, con l’intento di alleviare non solo le sofferenze del fisico, ma anche quelle della mente. Saunders aveva infatti compreso – con intuizione innovativa per gli anni 60 – quello che oggi è ampiamente riconosciuto (anche a seguito della dichiarazione del 2002 del WHO, l’Organizzazione Mondiale della Sanità): il dolore o il decadimento fisico necessitano di una complessa rete di attenzioni di carattere psicologico che si allargano anche alla sfera dei familiari.
L’iniziativa si diffuse rapidamente nel Regno Unito e in Irlanda (nel 1977 si contavano già 26 hospice), poi in Svezia e Norvegia e nel resto d’Europa (nel 1975 il primo hospice fuori dell’Europa, nel Québec), tanto che, nel 1988 è stata fondata l’Associazione europea per le Cure palliative che raggruppa più di 50 mila operatori sanitari e nel 2003 il Consiglio d’Europa ha riconosciuto le cure palliative «un servizio essenziale per la popolazione».
Per hospice oggi si intende una struttura destinata essenzialmente all’assistenza di malati negli ultimi mesi o settimane di malattia – continua il documento –, mentre le cure palliative costituiscono tutto quel complesso di interventi a carico degli operatori sanitari n grado di alleviare sofferenza e dolore. Ma già il Rapporto europeo del 2008 sottolineava la grande differenza in termini di accessibilità alle cure da parte dei cittadini degli stati membri.
Cambio di paradigma
Appare significativa la volontà della Comece di ricondurre al contesto storico alcune obiezioni che successivamente si sono rivelate infondate, in particolare le controindicazioni all’uso degli analgesici ritenuti a rischio di dipendenza e difficoltà respiratorie dai medici di qualche decennio fa.
Rientra in questa linea anche il discorso, «troppo frequentemente citato» di papa Pio XII, del 24 febbraio 1957 (10 anni prima dell’apertura del St. Christopher) al Congresso della Società italiana di anestesiologia, secondo il quale i cristiani non avrebbero dovuto chiedere di alleviare il dolore per unirsi invece volontariamente alle sofferenze di Cristo («L’accettazione del dolore fisico non è che un modo, tra molti altri, di significare ciò che è l’essenziale: la volontà di amare Dio e di servirlo in tutte le cose. Nella perfezione di questa disposizione consiste anzi tutto il valore della vita cristiana e del suo eroismo»).
Se già in quella risposta ai medici si lasciava spazio, comunque, all’uso di analgesici, specificando che esistono altri modi di santificazione, ciò che oggi viene richiamato di quel testo è che un cristiano dovrebbe essere ben cosciente che il dolore fa parte della vita umana alla stregua della morte. A differenza di quella volontà di rimozione insita talvolta nella società moderna (cf. il monito di Karl Lehmann nel 1989 al 7° Simposio dei vescovi europei), dove si registra piuttosto un abuso di farmaci, anche ansiolitici e psicotropi, per evitare ogni tipo di sofferenza, di cui «il dolore fisico non è l’unica causa».
Più articolato appare il discorso sulla somministrazione di farmaci che inducono stati di incoscienza (talvolta però necessari) e sulla cosiddetta «sedazione terminale» («fonte di ambiguità»), sulla quale il testo invita alla prudenza perché non si trasformi, alla lunga, in un’azione di «lenta eutanasia» per «accelerare deliberatamente la morte».
Allo stadio terminale dell’esistenza viene dedicato un intero paragrafo con l’annoso problema circa i trattamenti, come l’idratazione o l’alimentazione artificiale e il cosiddetto accanimento terapeutico: «conviene, in ogni caso, valutare la situazione prima di prendere una decisione appropriata in dialogo col paziente o i suoi familiari». Sempre nell’ottica di «accompagnare, non provocare la morte», come recita il paragrafo 11.
Richiesta di senso
Nei momenti in cui sperimenta il dolore fisico «il malato avverte inquietudine, paura, ansietà, collera, sentimenti di solitudine e abbandono che lo portano ad interrogarsi sul senso stesso della vita e della morte, sull’esistenza di un aldilà…». «Un atteggiamento di accoglienza e ascolto da parte di quanti gli stanno attorno gli permette di esprimere i sentimenti che lo agitano, uscire dalla solitudine, alleviare la sua angoscia, riannodare i fili della vita trascorsa, fare un bilancio, riconciliarsi con gli altri e con Dio stesso».
Di qui la necessità di affiancare un sostegno di tipo psicologico-religioso, tenuto conto che esso è riconosciuto ormai a pieno titolo nella sfera delle cure palliative. Tale affiancamento può trasformarsi anche in accompagnamento di tipo spirituale: «ogni ammalato che lo chieda ha diritto all’assistenza di un rappresentante della sua confessione religiosa».
L’accesso a tutti
Nonostante la Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2003: «Chiunque abbia necessità di cure palliative dovrà poterne beneficiare senza indugio e alle condizioni corrispondenti al bisogno nella misura possibile», il testo denuncia le clamorose disuguaglianze tra i paesi membri: di qui l’appello a rimuovere ogni ostacolo e garantirne l’accesso a tutti.
«Le cure palliative rappresentano un’opera di grande umanità e manifestano la compartecipazione della società verso i suoi membri più provati e il riconoscimento della loro dignità» – si legge nella conclusione –, ed è tempo che ogni legislazione dei paesi europei provveda al loro riconoscimento effettivo (si tratta di uno dei «nuovi bisogni sociali»), come del resto è stato ribadito nuovamente a Bruxelles nel 2014 con una Dichiarazione specifica che ricorda altresì l’attenzione speciale per le persone più vulnerabili, le minoranze etniche e i bambini malati, oltre che un’adeguata formazione specifica per il personale sanitario.