Papa Francesco ha incontrato e salutato un gruppo di 16 Rohingya nell’arcivescovado di Dacca e, parlando a braccio, ha detto tra l’altro «vi chiedo perdono per l’indifferenza del mondo»; «vi sono vicino, la situazione è molto dura»; «non giriamoci dall’altra parte». «La presenza di Dio oggi anche si dice Rohingya», ha detto il papa, dopo aver salutato uno ad uno i 16 profughi dal Rakhine.
È la prima volta che il papa pronuncia la parola “Rohingya” durante questo viaggio in Asia, e lo fa in modo teologicamente molto forte. Dopo l’incontro con il papa, alcuni di loro piangevano.
Papa Francesco, con l’aiuto degli interpreti, ha ascoltato quello che ognuno aveva da dirgli. Ha accarezzato le bimbe, e a una ha messo le mani sul capo; ha anche stretto le mani che una delle due signore che gli porgeva.
All’inizio della giornata aveva celebrato nel Suhrawardy Udyan Park di Dacca una messa che rimarrà storica per la Chiesa cattolica del Bangladesh, che conta solo 380 mila fedeli. Ha infatti ordinato 16 nuovi preti, che si vanno ad aggiungere ai 400 del Paese, che ha 160 milioni di abitanti, in stragrande maggioranza musulmani. Nel suo saluto a braccio, tradotto in bengalese e accolto da applausi, papa Francesco ha in particolare ringraziato i presenti (centomila persone), alcuni dei quali, ha detto, «so che hanno fatto un viaggio anche di due giorni per essere qui».
Il venerdì si è concluso con un incontro interreligioso, al quale hanno partecipato induisti, buddisti, musulmani ed esponenti della società civile.
Aprire il cuore
Qui Papa Francesco ha parlato per immagini, rilevando che per dialogare occorre una «apertura del cuore» e possiamo immaginarla con tre caratteristiche: è una porta, una scala, un cammino
«In primo luogo, essa è una porta. Non è una teoria astratta, ma un’esperienza vissuta. Ci permette di intraprendere un dialogo di vita, non un semplice scambio di idee. Richiede buona volontà e accoglienza, ma non deve essere confusa con l’indifferenza o la reticenza nell’esprimere le nostre convinzioni più profonde. Impegnarsi fruttuosamente con l’altro significa condividere le nostre diverse identità religiose e culturali, ma sempre con umiltà, onestà e rispetto.
L’apertura del cuore è anche simile ad una scala che raggiunge l’Assoluto. Ricordando questa dimensione trascendente della nostra attività, ci rendiamo conto della necessità di purificare i nostri cuori, in modo da poter vedere tutte le cose nella loro prospettiva più vera. Ad ogni passo la nostra visuale diventerà più chiara e riceveremo la forza per perseverare nell’impegno di comprendere e valorizzare gli altri e il loro punto di vista. In questo modo, troveremo la saggezza e la forza necessarie per tendere a tutti la mano dell’amicizia.
L’apertura del cuore è anche un cammino – ha aggiunto ancora – che conduce a ricercare la bontà, la giustizia e la solidarietà. Conduce a cercare il bene del nostro prossimo».
E venendo al concreto del Bangladesh, Papa Francesco ha avuto parole di apprezzamento per quanto si sta facendo. «Le diverse comunità religiose del Bangladesh hanno abbracciato questa strada in modo particolare nell’impegno per la cura della terra, nostra casa comune, e nella risposta ai disastri naturali che hanno afflitto la nazione negli ultimi anni. (…) Uno spirito di apertura, accettazione e cooperazione tra i credenti non solo contribuisce a una cultura di armonia e di pace; esso ne è il cuore pulsante. Quanto ha bisogno il mondo di questo cuore che batte con forza, per contrastare il virus della corruzione politica, le ideologie religiose distruttive, la tentazione di chiudere gli occhi di fronte alle necessità dei poveri, dei rifugiati, delle minoranze perseguitate e dei più vulnerabili! Quanta apertura è necessaria per accogliere le persone del nostro mondo, specialmente i giovani, che a volte si sentono soli e sconcertati nel ricercare il senso della vita!».