Domenica 11 dicembre, nella capitale del Laos, Vientiane, si tiene la solenne celebrazione di beatificazione di 17 martiri per la fede, tra sacerdoti, religiosi e laici, che hanno perso la vita tra il 1954 e il 1970. Tra di essi, il missionario trentino padre Mario Borzaga, ucciso nel 1960 a soli 27 anni, insieme al suo giovane collaboratore, il catechista Paolo Thoj Xyooj. A presiedere il rito, in rappresentanza del papa, sarà il cardinale filippino Orlando Quevedo, oblato di Maria Immacolata come padre Borzaga.
Alla cerimonia non parteciperà alcuna delegazione francese – dei 17 martiri, ben 15 sono francesi – per il «no» secco opposto dal governo laotiano. Il Paese (236.800 kmq di superficie e una popolazione di 6.492.400) divenne indipendente con gli accordi di Ginevra (20 luglio 1954), che posero fine alla colonizzazione francese dell’Indocina.
Paul Phanh e il vescovo Nantha
Visitai la prima volta il Laos nel 1996, insieme a p. Marcello Matté del Centro editoriale dehoniano. «Che Dio ve la mandi buona», ci aveva augurato da Parigi p. Jean–Marie Bosc, un vecchio missionario in Laos. Nel 1975 al regime filo-occidentale si era sostituito uno di stampo marxista-leninista in sintonia con gli altri stati asiatici. Il potere era passato nelle mani del Partito popolare rivoluzionario lao, che lo detiene tuttora. L’ordinamento dello stato è ancor oggi incentrato sul partito unico (PRPL), al quale appartengono il presidente e il primo ministro. Nel 1991 il Paese si diede la Costituzione, secondo la quale formalmente si definisce una repubblica parlamentare, ma di fatto è un regime a partito unico.
Ci recammo a Luang Prabang, un’autentica perla. Vi erano in passato circa 2500 cattolici. C’erano il vescovo, la cattedrale, un bel seminario, il cimitero. Il vescovo Nantha, primo vescovo laotiano, morì nel 1984. Sostammo davanti alla cattedrale: solo due piccole croci sulla facciata a testimoniare che era la cattedrale di Luang Prabang. Era ridotta a sala di riunioni per conto del commissariato di polizia. Distrutto il campanile. Un po’ più in là, il seminario divenuto scuola e, a poca distanza dalla cattedrale, il cimitero dei cattolici. Spogliato delle lapidi, facemmo fatica a intravvedere una tomba accanto a una casupola. Era la tomba di un missionario italiano.
A Luang Prabang avvenne un episodio che testimonia la drammaticità degli eventi rivoluzionari, il coraggio dei missionari stranieri, in seguito tutti espulsi, e l’attaccamento alla fede di gente povera e paziente. Temendo che la piccola comunità cattolica restasse senza l’eucaristia, il vescovo Nantha ordinò prete un suo catechista, Paul Phanh, di famiglia vietnamita, sposato, padre di tre figli, con pochissimi elementi di teologia e liturgia. Ovviamente si era consultato con il nunzio, che risiedeva a Bangkok. Era Giovanni Moretti, un novarese di grande sensibilità e apertura. Moretti fu poi inviato in Belgio e presso l’Unione Europea, dopo essere stato rimosso per punizione, ma non si pentì mai di avere autorizzato l’ordinazione.
Il vecchio Phanh, pur essendo ammalato, continuò a celebrare l’eucaristia in casa sua attorniato da alcuni fedeli. Volevamo incontrarlo, ma gli avremmo procurato solo fastidi e avremmo indotto la polizia, che lo sorvegliava giorno e notte, a interrogarci sui motivi del nostro viaggio «clandestino». C’erano di certo dei cattolici che si incontravano segretamente per la preghiera ,probabilmente seguiti da alcune religiose.
Una Chiesa che «ha scelto di essere povera»
Nella capitale Vientiane i cattolici invece respiravano. La messa in cattedrale, stile francese, era alle prime luci dell’alba. A Paksé i cattolici erano oltre 10 mila e a Savannakhet quasi 8 mila.
Nel Laos prima della rivoluzione i cattolici erano circa 300 mila, ora si aggirano sui 100 mila (1,5% della popolazione), appartenenti per lo più alle etnie vietnamita, Khmu e Thai Deng. La gerarchia era sorvegliata e preti e catechisti avevano conosciuto i campi di rieducazione, le malsane prigioni, il sistematico lavaggio del cervello.
Ne incontrammo alcuni, che portarono testimonianze da brividi. La Chiesa era poverissima. Ci disse il vescovo di Vientiane, Khamsé: «È una Chiesa che ha scelto di essere povera, come la gente, badando a non darsi strutture: chiese, scuole, ospedali, che la farebbero apparire Chiesa straniera, sostenuta economicamente e finanziariamente dall’esterno».
La gente ci dava l’impressione di essere assorta, inerte, rassegnata. Il Paese ci appariva impaurito e il regime era diviso al suo interno. Si vedeva che faticava a frenare le spinte dei giovani, molti dei quali, varcato il Mekong, si erano stabiliti all’estero. Dal 1975 al 1996 il 10% della popolazione lasciò il Paese. Se ne andò un terzo degli intellettuali, la parte più incline al dissenso.
Testimonianze di martirio
Lasciammo il Paese con tristezza e simpatia. Di buon mattino le strade di Vientiane si animavano di gruppi di ragazzi e giovani. Era ancora buio e già ascoltavano musica, insieme, seduti sull’asfalto. Non era la musica del loro Paese, delle tradizioni buddhiste. Una musica a tutto volume, per non sentirsi isolati dal mondo, quello dei sogni; un mondo per loro soltanto bello, intravvisto al di là delle montagne o del grande fiume Mekong.
Ritornai in Laos nel 2004. Sempre con molta attenzione, potei incontrare uomini di Chiesa, raccogliere testimonianze di martirio, come quella di mons. Tito Banchong Thopanhong, amministratore apostolico di Luang Prabang, tre volte in carcere e condannato ai lavori forzati, sottoposto di continuo al lavaggio del cervello. Fu lui a raccontarmi la storia dell’ordinazione a Luang Prabang di Paul Phanh, avvenuta nel 1979. Era un uomo veramente pio, un martire, morto nel 2003.
Il pomeriggio del 23 febbraio 2004 accompagnai mons. Tito alla stazione degli autobus, dove tanta gente ammassava cose di ogni genere su carrette della strada. Avrebbe viaggiato tutta la notte per strade impervie e pericolose per raggiungere alcuni villaggi. Sandali ai piedi, uno zainetto e un sacchetto di cellophane con un po’ di frutta. Un uomo piccolo di statura, visibilmente provato dai campi di rieducazione, e un paese senza libertà, ancora senza futuro.
Il Laos oggi
Ora il Paese conosce una rapida crescita economica favorita dall’esportazione di materie prime ed energia elettrica. Vivaci sono gli scambi economici e sono in atto provvedimenti volti a favorire gli investimenti stranieri, soprattutto thailandesi, cinesi e vietnamiti. Ma la bilancia commerciale continua a essere in passivo per l’importazione di beni di consumo, macchinari e petrolio.
Nel 2012 sono stati siglati accordi per collegamenti ferroviari con il Viet Nam e la Cina. Il Mekong e i suoi affluenti sono fondamentali vie di trasporto. L’indice di sviluppo umano pone il Laos al 141° posto.
La Chiesa ora respira un po’ di più in un Paese ancora troppo chiuso. Ricordo le parole di mons. Tito di Luang Prabang, dove il Mekong diventa rosso quando tramonta il sole. Là i martiri sono stati migliaia. Là è stata coniata l’espressione: «La Chiesa del Mekong» per il sangue dei martiri.
Giovanni Moretti fu inviato per punizione in Sudan. Dissero che aveva bisogno di un clima caldo per cuocere il suo cervello ancora molto crudo. Dal Sudan divenne nunzio in Egitto, dove lo conobbi molto bene e mi raccontò le avventure in Laos e le conseguenze per lui.
Dall’Egitto fu mandato in Belgio, con grande sorpresa da parte sua. Mi disse: «Hanno dimenticato quello che ho fatto anni fa?». Ora è in pensione, credo che sia ancora vivo.
+ Camillo Ballin, vicario apostolico di Arabia del nord.