Riuniti nella 101ª Assemblea plenaria della conferenza episcopale messicana, i 120 vescovi non potevano non fare riferimento al duro e clamoroso discorso del papa in cattedrale del 13 febbraio durante la sua visita in Messico.
L’intervento del papa – secondo l’autorevole opinione del sociologo Bernardo Barranco – «disegna un modello più pastorale di Chiesa e una nuova strada ai vescovi messicani», ai quali non viene chiesto di essere prìncipi, ma di andare all’essenziale, non perdendo tempo ed energie in cose secondarie, in intrighi, in vani progetti di carriera, in vuoti piani di egemonia, in club di interessi personali. Li ha messi in guardia dalle mormorazioni e dalle maldicenze. Ancora Bernardo Barranco: «Francesco mette in discussione l’illegittimo ed eccessivo vincolo tra la Chiesa e il potere politico, la gerarchia e il potere economico. Il papa rifiuta i vescovi di stato, i prelati di gruppo e i monsignori litigiosi». Vuole che siano trasparenti, che escano dalla penombra della mondanità, che non si lascino corrompere dal materialismo di bassa lega, né facciano accordi sotto banco, che non si pongano al carro dei faraoni del momento. Parole durissime, dette nel corso di una dissertazione di 4.500 parole.
Gli osservatori accorti – come lo stesso Bernardo Barranco e Carolina Gomez Mena del giornale La Jornada – mettono in luce che, da molto tempo, all’interno dell’episcopato vi sono disunioni e fratture tra il clero secolare e quello religioso, tra i laici e una Chiesa clericale, tra i religiosi e le religiose, tra la Chiesa e il popolo, e tra i vescovi stessi. Tra le parole di Raul Vera, vescovo di Saltillo, e quelle dell’arcivescovo di Città del Messico, il card. Norberto Rivera, vi è un abisso.
Manca nella gerarchia cattolica messicana una forte e tangibile leadership. Ogni vescovo si muove come gli pare e piace e l’accusa ricorrente è questa: l’impegno evangelico, che la 5ª Conferenza dei vescovi latinoamericani (Aparecida, 13-31 maggio 2007) aveva lanciato come priorità, è ben lungi dall’essere messo in atto. A questo – secondo gli osservatori – è dovuta la costante diminuzione dei cattolici nel paese.
Ai rimproveri – ritenuti giusti dalla maggior parte dei mass media messicani – hanno reagito male lo stesso arcivescovo di Città del Messico, attraverso la pubblicazione di un editoriale sul settimanale dell’arcidiocesi Desde la Fe, e Jesus Martinez Zepeda, vescovo di Irapuato. Gli altri vescovi, ad eccezione di Arizmendi di San Cristobal de las Casas, hanno scelto la strada del silenzio.
Si nota che in molti prelati c’è una certa apatia o paura di pronunciarsi. Clima che non fa certo onore ad un episcopato così numeroso. Osserva ancora con arguzia Bernardo Barranco: «Per quanto riguarda il cambio al vertice della conferenza episcopale, è più importante la ricezione del messaggio di Francesco che la riconferma del card. Francisco Robles come presidente o l’estromissione del segretario Eugenio Lira Rugarcia», reo di non aver gestito bene il viaggio del papa, sostituito da Alfonso Miranda Guardiola, vescovo ausiliare di Monterrey.
Il papa sapeva molto bene di trovarsi di fronte a una delle conferenze episcopali più conservatrici e restie ai cambiamenti di tutta l’America Latina. L’episcopato messicano non è riuscito ancora a lasciarsi alle spalle la discussa missione diplomatica del nunzio Prigione, sotto il quale venivano nominati vescovi disciplinati secondo le regole di Roma, fedeli all’ortodossia e alla dottrina cattolica, con poco carisma e un profilo intellettuale mediocre se non addirittura scadente.
Il viaggio del papa ha scosso laici, religiosi e religiose, il basso clero e le associazioni civili di ispirazione cristiana, i quali chiedono un rinnovamento pastorale e profetico della gerarchia. Ci si domanda: sapranno i vescovi riconoscere con umiltà le loro colpe o reagiranno come la classe politica che applaude addirittura alle critiche di Francesco e poi, con cinismo, le fa scorrere via come acqua sulla pietra?