I numeri non consentono dubbi. 60 elettori su 100 hanno rigettato le riforme della Costituzione approvate dal Parlamento. Come già nel 2006, quando si votò sulla riforma Berlusconi, la sovranità popolare ha rovesciato la decisione degli eletti dal popolo. Così ha funzionato il meccanismo dell’articolo 138 della Costituzione, studiato appositamente perché l’ultima parola spetti al popolo e per impedire che un voto in più del Parlamento alteri i connotati della Carta.
Il rischio della sconfitta era insito nella decisione del governo Renzi di procedere in solitaria escludendo di impegnarsi nella ricerca del compromesso parlamentare, il che avrebbe sicuramente “annacquato” il testo ma, ove si fosse raggiunta la maggioranza dei due terzi, lo avrebbe messo al riparo dalla prova d’appello del referendum.
Conseguenze della disfatta
La ricerca di un vasto consenso sulle riforme costituzionali non è un requisito di buona creanza, ma una condizione di agibilità politica. Averlo trascurato è sicuramente la causa tecnica della disfatta del 4 dicembre.
Le cui conseguenze sono ancora da esplorare anche se la prima, le dimissioni di Renzi, si è già verificata, come del resto era da prevedere ed era stato annunciato dallo stesso Presidente del Consiglio. Ma vi saranno altre ripercussioni nei rapporti tra le forze politiche e al loro interno, a cominciare dal Pd che ha affrontato la prova in regime di divisione se non di rissa.
Ancora una volta si confida nel traino del “motore di riserva” della repubblica, cioè nell’iniziativa del presidente Mattarella, al quale è assegnato il compito di pilotare il paese verso le elezioni generali, curando che prima si varino le norme elettorali necessarie per comporre entrambi i rami del Parlamento.
Terreno devastato
L’impresa è davvero ardua anche perché il terreno della politica è stato devastato da una campagna elettorale che sarà ricordata per la virulenza dei toni e per la volgarità del linguaggio dei leaders, amplificato in peggio dall’invasiva risonanza dei social.
Qualcuno si è industriato a redigere un campionario che potrà servire per aggiornare l’enciclopedia delle ingiurie. Si va dal «Renzi si comporta come una scrofa ferita» (Grillo) al «la riforma soddisfa esigenze anche criminali» (Ingroia), passando per il «c’è un’accozzaglia di tutti contro di me» (Renzi) per giungere al «i ladri che per trent’anni ci hanno rubato in casa e vogliono sostituire la serratura, non si capisce se per non rubare più o per rubare meglio» (Di Battista).
Probabilmente non si troverà il tempo e pochi saranno disponibili a farlo, ma sarebbe interessante ripercorrere il tracciato dei confronti degli ultimi mesi per realizzare una migliore spiegazione dell’accaduto e per ricavarne qualche insegnamento per i prossimi appuntamenti.
Il trionfo dei “secondi fini”
La prima nota da considerare è la così detta personalizzazione dello scontro, imperniata sulla minaccia di Renzi di lasciare la Presidenza (e la politica) in caso di sconfitta. Tutti gli avversari hanno raccolto l’invito cambiando sostanzialmente la posta in gioco: non più e non solo un testo legislativo per quanto importante ma la testa del Presidente del Consiglio. Così gli appelli a occuparsi del «merito» sono caduti nel vuoto e la polemica è stata dirottata su quei “secondi fini” riassunti, in sostanza, nel disegno di provocare la caduta del governo.
L’altro aspetto da sottolineare è che, contrariamente a quanto era auspicabile, nessuno nel campo del “sì” ha compiuto il tentativo di connettere le riforme proposte, riguardanti l’ordinamento della repubblica, cioè il «regolamento del condominio», con i contenuti e gli impegni della prima parte della Costituzione, i suoi principi e i suoi valori. Semplificare, snellire, velocizzare, d’accordo; ma per che cosa? Il recupero di un discorso sui fini della politica sotto le specie di un progetto di grande respiro, ad esempio sul tema dell’occupazione e/o della lotta alla povertà, avrebbe potuto dare un significato meno astratto alle norme procedurali in discussione.
Sarebbe stato bello, e forse anche utile, che qualcuno, nel vivo del confronto, si fosse affacciato a rinnovare le… promesse battesimali repubblicane, sotto le specie dei principi fondamentali della Carta, magari avvalorandone il significato con una citazione del Moro costituente. Per il quale «il loro effetto è quello di… imporre al futuro legislatore di attenersi a questi criteri supremi che sono permanentemente validi».
Si poteva obbiettare che questa parte della Carta non era sfiorata dal quesito referendario, ma nulla avrebbe impedito di farne memoria.
Matteo Renzi: energia ed eccessi
Infine, la mancata elaborazione del testo della nuova legge elettorale in sostituzione dell’“Italicum” ha lasciato in campo un argomento polemico che sicuramente ha sottratto consensi alla riforma. Anche l’ultimo compromesso redatto all’interno del Pd tra maggioranza e parte della minoranza non è stato valorizzato come avrebbe meritato.
È inevitabile poi che sul cumulo delle ragioni della disfatta si proiettino le luci e le ombre della personalità di Matteo Renzi, tanto ricca di energia quanto prodiga di eccessi. Quando Renzi si affacciò alla ribalta, succedendo a Letta nel modo che tutti ricordano, mi accadde di paragonarlo al primo Fanfani, il leader democristiano irruento e decisionista, le cui veloci ascese erano sempre seguite da rovinose cadute. Dalle quali però spesso si riprendeva depurando i propri comportamenti da quel di più che li rendeva insopportabili e persino rivelando tratti impensabili di saggezza.
Sarà così anche per Renzi? La contesa si sposta naturalmente sul partito dentro il quale il leader sconfitto potrà, se vuole, rilegittimarsi con il congresso, oppure passare la mano in attesa di fati migliori. Con questa differenza rispetto ai tempi della Dc: che quando Fanfani dovette abbandonare, la successione toccò ad Aldo Moro, mentre per il Pd la situazione è alquanto problematica.
D’altra parte, è sul Pd che gravano le maggiori responsabilità ed è quindi auspicabile che esso trovi un assetto interno che gli consenta di concorrere alla ricomposizione del tessuto politico dopo le lacerazioni della battaglia testé conclusa.
Giustamente ha detto Renzi nel suo discorso di mezzanotte che tocca ai vincitori di accollarsi gli oneri oltre che gli onori della vittoria. Si può intendere o come una sfida o come una disponibilità a cooperare. In ogni caso, finché il Pd ha la maggioranza alla Camera nessuno può ignorarne la presenza o sottovalutarne il ruolo.
Oltre il fronte vittorioso
E qui andrebbe aperto il capitolo delle condizioni/contraddizioni del fronte vittorioso. Cederà alla tentazione di trasformare la maggioranza referendaria in maggioranza politica? I precedenti lo sconsigliano. Come si atteggeranno le sue componenti di fronte alle proposte volte a fronteggiare le emergenze della crisi? È un’incognita. E quale contributo potrà venire da quelle sponde all’analisi che pure va effettuata della situazione politica e sociale del paese nel quadro di un’Europa disorientata e di un mondo fuori rotta?
Prove come quella che ha portato al risultato del 4 dicembre interpellano in modo diverso sia i vinti che i vincitori. Gi uni hanno da meditare sugli errori compiuti, le presunzioni avvalorate, le occasioni perdute; gli altri devono studiare come evitare di commettere gli stessi errori che hanno condotto i loro avversari alla sconfitta.
È importante che questa riflessione ci sia anche se l’esito non è prevedibile; ed ancor più importante è che essa coinvolga il massimo possibile di energie popolari come è lecito sperare in presenza di una partecipazione al voto tanto vasta da essere sorprendente.