Ci siamo addormentati con Hillary e ci siamo svegliati con Donald. È la democrazia, bellezza, come dicono i saggi. Ed è persino rassicurante ascoltare la prima reazione di Barak Obama, il quale certifica che, dopotutto, «il sole continuerà a sorgere e tramontare sulla terra».
Le vicende americane registrano molti casi di previsioni capovolte e di sondaggi smentiti dall’esito delle urne. La mia memoria regredisce fino alla sfida, anni 50, tra Eisenhower e Stevenson, e quella, memorabile, tra Kennedy e Nixon, anni 60, fino alla contesa all’ultimo numero tra Al Gore e Bush junior.
In quelle contrade non si danno casi di svolgimenti senza scosse e scandali. La demolizione dell’avversario a colpi di rivelazioni più o meno attendibili fa parte della dimostrazione del teorema per cui ciascuno degli sfidanti cerca di provare che l’altro non ha il “carattere” giusto per governare.
Senza esclusione di colpi
Stavolta però è diffusa la sensazione che si sia passato il segno, soprattutto da parte di Donald Trump. Un candidato che promette di mandare in galera la sua antagonista e lo fa scrivere sulle felpe dei suoi supporters è francamente qualcosa di inedito. Così come supremamente scorretto è stato giudicato il suo preventivo rifiuto di fare la telefonata di “concessione” al vincitore in caso di sua sconfitta. Telefonata che invece ha avuto il piacere di ricevere.
Così il confronto ha assunto il tono di una contesa all’ultimo sangue tra un avventuriero di dubbia moralità negli affari e per giunta avvezzo a mettere le mani addosso alle donne – così il fronte Hillary ha rappresentato Trump – e una politicante viziata dal potere fino al punto da mascherare gli scandali familiari e, in più, bugiarda recidiva, come, dall’altra parte, si dipingeva Hillary.
Quest’ultima aveva dalla sua il fatto di essere donna, la prima donna della storia ad aspirare alla Casa Bianca. Sarebbe stata la seconda novità dopo il lungo mandato di Obama, il primo “nero” assurto alla successione di Washington. Ma il risultato mostra che il fattore sesso – inteso come parità nei diritti, con tutto il seguito dei “valori” relativi – non ha influito sull’orientamento della maggioranza del popolo. Anzi.
Né ha funzionato l’immagine di una Clinton che proponeva un’affidabilità di un “usato sicuro”, dove però le qualità si compensavano con difetti e magagne.
Un movimento “dal profondo”
Nel suo discorso della vittoria, Trump ha sottolineato che la sua non è stata una campagna elettorale nel senso tecnico del termine, cioè qualcosa che ha termine con la proclamazione del vincitore, ma un vero e proprio “movimento”, un’ondata che proviene dalla viscere del paese e che non si fermerà con l’espugnazione della Casa Bianca (e il controllo repubblicano di Camera dei Rappresentanti e Senato).
Forse non è appropriato parlare di “rivoluzione” come molti hanno fatto per descrivere l’accaduto. Ma certo qualcosa di straordinario si è verificato e se ne dovrà cogliere la portata e il significato reale, una volta svaniti i clamori della propaganda.
L’analisi del voto e le prime valutazioni confermano che il segnale di Trump ha intercettato bisogni e sentimenti diffusi in tutto l’elettorato, ma in particolar modo negli strati che più sono stati colpiti dalla crisi, i quali hanno creduto alla prospettiva di una maggior sicurezza come garanzia di un miglioramento economico e sociale.
La ricetta populista
In buona sostanza la gente ha considerato valida la ricetta tipica dei populismi contemporanei: quella che punta sulla chiusura delle frontiere (sbarramento agli immigrati) come garanzia del benessere per chi si trova dentro il recinto. Si chiama protezionismo, una formula (e una tentazione) non nuova nella storia americana e ora convalidata da un consenso che mette all’incasso la cambiale.
Che farà Trump? Da qui a gennaio, data dell’insediamento, avrà tempo e modo per aggiustare il tiro e dovrà farlo introducendo nella logica “del tutto e subito”, con cui ha vinto, qualche saggio temperamento, a cominciare da una selezione delle priorità.
Certamente, non potrà dare inizio immediato alla costruzione del famoso muro divisorio sulla frontiera del Messico, un’opera che difficilmente potrà vedere la luce. Potrà, invece, lavorare all’erezione di altre barriere meno visibili a tutela delle produzioni e delle condizioni dei “residenti”. E anche qui dovrà operare delle scelte che potranno, nel tempo, consolidare o indebolire il consenso ora conquistato.
Nell’area europea
Quali riflessi, infine, nell’area europea? Si rafforza la spinta delle forze che puntano sulla chiusura delle frontiere e quindi sulla dissoluzione dell’Unione politica dell’Europa e anche lo smantellamento di quel poco di unità che si è realizzato, a partire dall’euro. È il modello “Brexit2” e, sul continente, il “modello Orban”.
I timori che si pensava di esorcizzare facendo il tifo per Hillary hanno ora lo spazio per dilagare senza contrasti. E non c’è un modello da opporre. A meno che… a meno che un sussulto di responsabilità e di realismo non induca quanti non sono disposti ad assecondare o subire l’irrazionalità dell’onda populista a cercare una convergenza su quel minimo di valori e di gesti necessari per dar vita ad un movimento alternativo.
Che non sia solo capace di contrastare la tendenza ma anche e soprattutto di offrire al popolo europeo la speranza di un’alternativa in grado di mobilitare le coscienze per un nuovo disegno di unità. Perché il sole non sorga su una distesa di trincee ma su un reticolo di opere frutto di una ritrovata energia solidale.