Insieme a un amico polacco, poiché non conosco la lingua, nei giorni scorsi abbiamo ripercorso l’ultimo libro di Dariuzs Oko, docente alla Facoltà teologica di Cracovia e formatore nei seminari polacchi. Il volume affronta i temi di due articoli che lo stesso docente ha pubblicato sui numeri di gennaio/febbraio e marzo/aprile della rivista Theologisches, che intitolava: «Sulla necessità di resistere alle lobby omosessuali nella Chiesa» («Über die Notwendigkeit homosexuelle Cliquen in der Kirche zu begrenzen»), mentre il titolo del libro recita Lawendowa mafia [letteralmente: La mafia della lavanda] (Wydawnictwo AA, Cracovia 2020).
Si potrebbe pensare al solito pamphlet carico di veemenza nei confronti della comunità LGBTQ+, se gli articoli non fossero ospitati da una rivista con velleità di scientificità teologica e il loro autore un accademico dell’Università Pontificia di Cracovia.
I toni decisi e talvolta violenti di alcune espressioni hanno indotto un presbitero di Monaco, molto attivo nella pastorale con le persone e le coppie omosessuali e che, in contrasto con la recente disposizione della Congregazione per la dottrina della fede ne ha benedette alcune, Wolfgang F. Rothe, a denunciare l’autore al tribunale di Colonia per incitamento all’odio contro una minoranza e attentato alla dignità umana.
La corte, il 6 luglio scorso, ha condannato, in prima istanza, l’autore dell’articolo e l’editore della rivista a una multa di 4.800 euro ed ora è in corso la procedura di appello. La notizia è stata data dal quotidiano La Repubblica il 2 agosto scorso e un’attenta e documentata analisi della vicenda ce l’ha offerta Lorenzo Prezzi su Settimananews del 4 agosto (qui).
Come teologo m’interrogo
Non è di mia competenza entrare nel merito, mentre, come teologo, intendo interrogarmi e interrogare sul metodo fin qui adottato in tale vicenda e, come docente e ricercatore, cercare di comprendere l’accusa, rivolta dall’associazione polacca Ordo Iuris alla giustizia tedesca, di ledere la libertà di ricerca accademica.
Al di là della contrapposizione culturale, teologica e pastorale fra alcuni Paesi dell’Est europeo e la Comunità stessa, cui pur intendono appartenere, non si può non cogliere una visione/interpretazione del mondo occidentale come radicalmente corrotto da parte dei sostenitori delle politiche ad esempio polacca e ungherese, che si ergono a difensori e sostenitori dei valori sacri e inviolabili, che la tradizione ci consegna. Nello stesso tempo, non si può non rilevare una notevole analogia fra questo modo di leggere la cultura occidentale e quello che di volta in volta esprimono l’islamismo più radicale e spesso anche larghe frange dell’ortodossia intransigente.
E, mentre siamo circondati a livello propriamente culturale e antropologico, non possiamo tuttavia semplicemente ignorare e cestinare queste posizioni critiche, quando esposte con rispetto e adeguatamente documentate, non possiamo non interrogarci sul nostro modo, ad esempio, di considerare la donna, la corporeità, gli oggetti, noi stessi, non possiamo non intraprendere la lunga e faticosa via di una riflessione antropologica a partire dalle prospettive sottese alle proposte di legge che si discutono e approvano nei nostri parlamenti. E ciò onde evitare il tanto evocato e deprecato «conflitto delle civiltà».
Sul metodo
Sul metodo, in primo luogo va notato che il tribunale tedesco ha poggiato la condanna non tanto sulla legge contro l’omofobia (entrata in vigore il 18 agosto 2006), né su quella che vieta la «conversione», con metodi violenti (esorcismi, elettroshock, stregonerie, indottrinamenti ecc.) degli omosessuali (7 maggio 2020), quanto sull’art. 130 del Codice penale tedesco (nel quale rientra la discriminazione effettuata in ragione dell’orientamento sessuale).
In esso si dispone che chi, in maniera tale da disturbare la pace pubblica, incita all’odio o alla violenza contro elementi della popolazione o lede la dignità di altre persone attraverso insulti o offese è punito con una pena detentiva da tre mesi a cinque anni, nell’orizzonte dell’art. 1 della Costituzione (Grundgesetz), che afferma l’intangibilità della dignità dell’uomo.
E questa scelta ci interpella per ovvi motivi e invita a rinvenire nei testi fondativi e nel Codice penale le motivazioni di condanna di chi incita alla violenza e al disprezzo verso persone e gruppi.
Sul luogo della disputa
Venendo al caso concreto, penso che la vicenda debba farci riflettere sulla rilevanza pubblica delle riviste teologiche, che evidentemente, almeno in Germania, toccano e affrontano argomenti che non lasciano indifferente la società civile, la cultura diffusa e l’opinione pubblica.
Un caso simile in Italia forse non sarebbe possibile, perché, e la lunga esperienza dirigenziale in tale ambito me lo conferma, le riviste su cui scrivono i teologi non hanno pressoché alcun seguito nel mondo «laico» e neppure nella comunità ecclesiale e restano rinchiuse nei circoli accademici e nelle biblioteche, piuttosto che lette e discusse pubblicamente. Il che induce una riflessione sugli argomenti affrontati su questi organi e, direi soprattutto, sul linguaggio autoreferenziale e criptico che viene adottato nella maggior parte dei casi.
Se, da un lato, l’iniziativa del rev. Rothe ha avuto il merito, correndo anche il rischio di fargli pubblicità e di innescare un effetto boomerang, di portare all’attenzione la questione, d’altro lato, non possiamo non chiederci perché mai il dibattito non lo si sia condotto in primo luogo attraverso un confronto teologico teso a confutare le tesi del rev. Dariusz Oko, piuttosto che deferirlo a un tribunale laico.
Non leggiamo forse nella I lettera di Paolo ai Corinzi che «Quando uno di voi è in lite con un altro, osa forse appellarsi al giudizio degli ingiusti anziché dei santi? Non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se siete voi a giudicare il mondo, siete forse indegni di giudizi di minore importanza? Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più le cose di questa vita!» (1Cor 6, 1-3), con quel che segue?
Sul merito delle tesi
Comunque, anche senza il riferimento alla Parola di Dio, mi sembra di poter sostenere che, al netto di espressioni particolarmente forti e offensive, il cui accertamento resta correttamente di competenza del tribunale laico, le tesi esposte nei due articoli di riferimento risultano, agli occhi di chi esercita la professione scientifica del teologo, tutt’altro che inconfutabili.
Ad esempio, il paragrafo sulle fonti (Zu Quellen des Wissens und der Verteidigung) contiene una serie di autocitazioni, che lasciano molti dubbi proprio sul carattere scientifico e accademico delle argomentazioni. Inoltre, la questione da porre è se, sulla base di quanto riportato nelle note e dei riferimenti del testo, si possa giungere a conclusioni così generaliste e ad espressioni così dure, quali quelle riportate in particolare nel paragrafo che associa omosessualità a pedofilia ed efebofilia, nel quadro di quello che l’autore definisce parassitismo della lobby gay nella Chiesa.
La gratuità di ricorrenti affermazioni non si sostiene scientificamente con la dovizia delle note unilaterali e selezionate secondo la pregiudiziale delle tesi che si intendono sostenere. La scientificità di un testo non si verifica dal numero delle note (70 in 56 pagine), ma dalla qualità delle stesse.
Stupisce il fatto che di tali falle epistemiche e scientifiche non si siano accorti i censori dei saggi, visto che, almeno dalle parti nostre, una rivista teologica scientifica è tenuta a sottoporre a peer review gli scritti che le vengono proposti. Evidentemente (e anche per questo giustamente viene chiamato in causa chi dirige la rivista) chi ha censito il lavoro è connivente con quanto vi si afferma e sostiene. Così come ritengo pretestuosa la critica di chi vede nella sentenza del tribunale un attentato alla «libertà accademica» e siamo ben lontani dalla sentenza che riguarderebbe un «reato di opinione».
Sulla questione del potere
D’altra parte, non mi sembra pertinente quanto rappresentato dalla direzione di Theologisches, secondo la quale il contenuto dei due saggi riguarderebbe un problema di politica intra-ecclesiastica, ovvero la questione del potere che tenderebbe ad accaparrarsi la lobby omosessuale e non la questione morale e teologica dell’omosessualità.
Se ciò corrispondesse al vero, il caso non sarebbe di competenza di un tribunale laico. La lettura dei testi mi ha convinto del contrario: secondo chi li ha scritti, la presa del potere non accade perché siamo di fronte a una lobby, ma, perché essa sarebbe costituita da persone omosessuali. Altrimenti le stesse critiche dovrebbero doverosamente essere rivolte ad altre, diverse lobby pur presenti nel panorama ecclesiale.
Dopo aver consultato alcuni miei ex allievi (ora dottori) provenienti dalla Polonia e lì residenti, ho trovato larga conferma e consenso, con quanto giustamente scrive Prezzi, con gli opportuni distinguo, segnalando la distanza fra le posizioni abbracciate dal rev. Oko e la Chiesa cattolica polacca:
«Il testo, approvato dai vescovi polacchi Posizione della Conferenza episcopale polacca sui temi LGBT nel 2020 è più sfumato e attento. In ogni caso siamo assai lontani dall’interpretazione che, a partire dalla dimensione storica della morale biblica, lega i segni dei tempi alla storia comune, con uno sguardo più disponibile al confronto nella cultura contemporanea (un testo di riferimento è Che cos’è l’uomo della Pontificia commissione biblica del 2019)».
Il problema è fare lobby
Per concludere sarebbe forse opportuno, nell’attesa della sentenza di appello, riflettere su quanto affermato da papa Francesco nel viaggio di ritorno da Rio de Janeiro (28 luglio 2013), di cui non ho trovato traccia nell’apparato critico prodotto dal prof. Oko.
Papa Francesco va oltre l’espressione più citata, allorché fa leva sulla distinzione fra l’essere gay e il fare lobby:
«Si scrive tanto della lobby gay. Io ancora non ho trovato chi mi dia la carta d’identità in Vaticano con “gay”. Dicono che ce ne sono. Credo che quando uno si trova con una persona così, deve distinguere il fatto di essere una persona gay, dal fatto di fare una lobby, perché le lobby, tutte non sono buone. Quello è cattivo. Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla? Il Catechismo della Chiesa cattolica spiega in modo tanto bello questo, ma dice – aspetta un po’, come si dice… – e dice: “Non si devono emarginare queste persone per questo, devono essere integrate in società”. Il problema non è avere questa tendenza, no, dobbiamo essere fratelli, perché questo è uno, ma se c’è un altro, un altro [sic!]. Il problema è fare lobby di questa tendenza: lobby di avari, lobby di politici, lobby dei massoni, tante lobby. Questo è il problema più grave per me» (sottolineatura mia).
Ho letto con attenzione, grazie per la chiarezza e per le argomentazioni esposte, purtroppo da qualche tempo la chiesa cattolica polacca vive un travaglio interno molto forte, con spinte al passato marcate e difficoltà ad un confronto serio con la modernità, complesso quanto necessario.
Considerazioni equilibrate, argomentazioni serie. Un’ottima disamina. Grazie, professore!