In un recente intervento Paolo Gamberini si propone di indicare alcune possibili vie per un superamento – nell’ambito dell’antropologia teologica – del paradigma della «complementarità dei sessi», che egli ritiene viziato da «una visione essenzialista della natura umana», (cf. P. Gamberini, Antropologia cristiana e complementarietà dei sessi).
Proseguendo egli precisa così il tale vizio di fondo: «la natura umana è intesa come immutabile e universale… statica comune ed eterna». Ma la critica più severa è rivolta al carattere «bipolare» di tale antropologia, secondo cui la natura umana sussiste in «due tipi di umanità – maschio e femmina… contraddistinti da differenze proprie e normative» (sottolineatura mia) riscontrabili non solo «nella costituzione corporea», ma anche «nell’intera gamma dell’esistenza umana: sociale, intellettuale, psicologica, spirituale».
L’autore giunge a caratterizzare – non senza un certo intento caricaturale – il «modo di essere maschile e… femminile» nei termini seguenti: «i maschi per natura attivi, razionali, intenzionali e autonomi, rivolti al mondo; le donne invece passive, intuitive, emotive, naturalmente inclinate verso “l’interno” e aventi come luogo loro più idoneo la casa».
Umanità e sessuazione, due livelli distinti
Come è facile vedere, questa critica confonde tra loro due piani ben differenti: da una parte il fatto della comune umanità dei due sessi e dall’altra quello della loro reciproca caratterizzazione psicologica e sociale. Se il secondo aspetto è evidentemente passibile di modularsi diversamente in rapporto ai contesti storici e culturali, ciò non comporta affatto che un’antropologia biblicamente ispirata debba e possa rinunciare all’idea stessa di una comune umanità sussistente in entrambi i sessi.
La Scrittura non lascia adito ad alcun dubbio quanto al fatto che l’integrità dell’umano sussista a pari titolo nel maschio come nella femmina dell’uomo, il che equivale (per riprendere le parole dell’autore) a dire che «uomo e donna esprimono nella loro realtà già piena l’intero Adam». Su entrambi i sessi è impressa la “immagine somigliante” del Creatore, che è il proprium dell’uomo davanti alla creazione.
L’antropologia ebraica e quella cristiana, fin dall’epoca patristica, riconoscono in tale “somiglianza” la duplice prerogativa umana dell’intelletto e del libero arbitrio. All’obiezione secondo cui la teologia avrebbe così introdotto categorie assenti dalla Scrittura – quali appunto “natura” o “essenza” umana, “intelletto” e “libero arbitrio” – si deve serenamente rispondere che, seppure tale lessico non sia forse documentabile in tutta la vasta letteratura canonica con lo stesso rigore dei filosofi, nondimeno è del tutto fondato riconoscere nella Bibbia una concettualità che implica le medesime nozioni o che con esse sostanzialmente coincide.
Entro una creazione in cui ogni essere vivente è chiamato a fruttificare “secondo la propria specie”, la differenza sessuale è il mezzo che permette all’unione dell’uomo e della donna – di dare compimento al comando di “essere fecondi, moltiplicarsi e riempire la terra”.
Nel racconto jahwista di Eva plasmata dalla costola di Adamo addormentato, la Genesi intende dare ragione del dato di esperienza per cui solo nella donna l’uomo “riconosce” qualcuno che, pur nella differenza, appartiene alla sua stessa origine, è costituita delle sue stesse “ossa e carne”, e può quindi collaborare con lui nella costruzione della famiglia umana.
Si tratta essenzialmente di un mito eziologico relativo alla scoperta dell’attrazione sessuale e complementarità in ordine alla generazione; così come lo è quello platonico dell’androgino, egualmente rievocato dall’autore. Va tuttavia rimarcato come sia fin troppo facile ridurre al ridicolo un mito («Uomo e donna non sono due metà che insieme formano l’intero… da cui l’idea di complementarità») quando non lo si interpreti in conformità alle sue intenzioni e alle sue caratteristiche letterarie.
La famiglia fatto antropologico e patrimonio della società
Il paradigma della complementarità ha precisamente nella sessualità, non nella psicologia o nei ruoli di genere, il suo nucleo irriducibile. Gamberini cita un intervento di papa Francesco in cui il pontefice sottolinea come «la complementarità tra uomo e donna» non vada confusa «con l’idea semplicistica che tutti i ruoli e le relazioni di entrambi i sessi sono rinchiusi in un modello unico e statico» e intravvede un possibile superamento della nozione di complementarità in quella della «armonia», alla quale ogni individuo – nella coppia e nella società intera – concorre con le proprie caratteristiche e doni.
Il termine potrebbe certamente essere precisato nei suoi possibili risvolti: sociali, psicologici, esistenziali… è comunque evidente come in tal modo l’accento si porti maggiormente sulle ricchezze che sulle carenze del singolo. Del resto l’armonia è precisamente lo scopo cui la stessa complementarità tende. L’autore sembra però non tenere conto della conclusione dello medesimo discorso, in cui papa Francesco torna ad esprimere una preoccupazione da lui spesso ribadita: «La famiglia è un fatto antropologico, e conseguentemente un fatto sociale, di cultura… Non si può parlare oggi di famiglia conservatrice o famiglia progressista: la famiglia è famiglia!»[1] (cf. Francesco, La famiglia come immagine di Dio…).
Se quindi è vero che i ruoli e le relazioni tra i sessi non sono comprimibili in uno schema predeterminato e fissista, il «dato antropologico» irriducibile è nondimeno chiaramente individuato da papa Francesco nella capacità di paternità/maternità, che si fonda sulla fecondità e a sua volta sulla differenza sessuale. Poco prima della conclusione dell’intervento sopra ricordato, egli riafferma l’insostituibilità della famiglia come “bene immateriale” che sorregge una società e il conseguente diritto dei «bambini… di crescere… con un papà e una mamma, capaci di creare un ambiente idoneo al loro sviluppo e alla loro maturazione affettiva».
È l’individualità sessuata in cui «l’intero Adam» sussiste ciò che non può sfuggire al paradigma della complementarità. Detto altrimenti: maschio e femmina possiedono, organicamente e fisiologicamente, ciò che l’altro non ha e possono reciprocamente donarlo e riceverlo.
Il soggetto è sessuato
Nella parte più discutibile del suo articolo, Gamberini propone di compiere un passo ulteriore rispetto alla «complementarità non determinata» del discorso papale, affermando: «Una corretta visione antropologica dovrebbe privilegiare la relatio sui relata, l’esistenza sull’essenza, la singolarità sul generico».
È certamente vero che il pensiero divino pensa e crea tutti gli individui – umani e non umani – nelle loro infinite diversità concretamente esistenti e che ciascuno di essi rappresenta più di una «essenza da rivestire». Altrettanto lo è che l’individuo vivente è pensato e voluto nella creazione come appartenente ad una specie e che, nel caso di quelle sessuate, è contrassegnato da un sesso nella cui intrinseca “incompletezza” sta iscritto lo slancio della creazione all’incontro e alla fecondità.
L’evidenza storico-empirica – insieme all’intervento papale letto nella sua interezza – non contiene affatto la possibilità di scindere l’obiettivo della «armonia» per quanto attiene ai ruoli sociali e familiari della coppia umana dalla complementarità binaria, duale e non plurale della sessuazione, la quale si sottrae completamente alle dinamiche dell’evoluzione culturale e storico-sociale dei ruoli di genere. Questo è precisamente ciò che Gamberini evita del tutto di riconoscere.
[1] Il testo riecheggia qui EG 66; cf. anche l’allocuzione al Forum delle associazioni famigliari il 16.6.2018: «Oggi – fa male dirlo – si parla di famiglie “diversificate”: diversi tipi di famiglia. Sì, è vero che la parola “famiglia” è una parola analogica, perché si parla della “famiglia” delle stelle, delle “famiglie” degli alberi, delle “famiglie” degli animali… è una parola analogica. Ma la famiglia umana… è una sola». La sessuazione rimane incancellabile per quanto i concreti individui possano assumere ruoli di genere culturalmente mutevoli; analogamente il dato antropologico della famiglia può rivestirsi di forme storiche diverse, pur permanendo nella coppia il suo nucleo irriducibile e nel figlio il marchio indelebile dell’origine dalla coppia dei gameti maschile e femminile dei due genitori.
La logica bipolare degli opposti (notte/giorno, cielo/terra, maschio/femmina) è incompleta e non fa trasparire la logica più profonda non-duale, direi “trinitaria” della relazione. La Scrittura ci parla di cieli nuovi e terra nuova, di notte che non ci sarà più (Ap 22,5), e Paolo in Gal 3,28 ci dice che “in Cristo” – nella novità escatologica – non c’è più né uomo né donna. Ciò significa che l’antropologia illuminata dalla fede deve saper far emergere questa logica “non duale”, trinitaria, escatologica dell’intero. Questo è l’intero chiamato “amore” che differenzia unendo e trasfigura la generatività “biologica” in fecondità di amore e vita abbondante. La complementari/età dei sessi, allora, è trascesa nell’armonia, così come ne parla Platone nel Timeo: «Non è possibile unire due soli elementi senza disporre di un terzo: dunque in mezzo vi dev’essere un legame che li unisca entrambi. Fra i legami il più bello è quello che faccia, per quanto è possibile, un’unica cosa di sé e dei termini legati insieme». Questo legame è l’amore ed è questo che genera.
Sento molto riecheggiare alcuni fasci del pensiero di Von Balthasar. L’articolo di F. Pieri, invece, mi pare un po’ troppo “apologetico” e con un intento troppo aderente al già detto e al già dato; la ricerca teologica, oggi, se vuole sopravvivere ed essere parte della ricerca accademica intera deve azzardare vie nuove e, soprattutto, mettersi dentro alla sfida post-moderna e della post-verità (anche se è già in ritardo, purtroppo!).
Cosa significa”mettersi dentro la sfida dalla post-verità”? Io credo che una buona teologia si valuti per il servizio che rende alla Parola di Dio e (attraverso di essa) al mondo, mostrando la profonda umanità e razionalità del credere ciò che la chiesa insegna. Il criterio di verità non può essere quello di risultare graditi alla “ricerca accademica”
Una buona teologia deve avere anche il coraggio di accogliere con positività le istanze culturali che giungono dal mondo, proprio per il fatto che la Parola di Dio è “parola di parole umane” anzi, meglio, la Rivelazione ebraico-cristiana (assai più ampia del precipitato storico delle Sacre Scritture) essendo appunto storica, nel suo dirsi e raccontarsi nella Bibbia, non ha potuto fare a meno di utilizzare i codici culturali dei diversi contesti alla base (e nello scrittore) di ciascun libro biblico. La questione è complessa e, perciò, va accolta nella sua complessità. Il servizio alla Parola anzi, ancora meglio, il servizio alla Rivelazione non può essere ridotto nel suo ridire una “serie di verità” dogmatiche considerate perenni e immutabili: il problema ermeneutico va accolto e integrato anzi (e soprattutto) nel servizio di ricerca compiuto dalla teologia. Credo che l’approccio teologico alle Scritture non debba essere quello che la considera una sorta di reliquia da aprire e leggere con l’intento di trovarvi in esse delle verità perenni da credere…
non si tratta di “accogliere con positività” qualsiasi istanza venga dalla cultura, ma di discerne (vagliare) entro la cultura ciò che è accettabile da ciò che non lo è; il criterio è la rivelazione, la tradizione, il magistero
non capisco poi perché “apologetico” dovrebbe essere una qualifica riduttiva: io mi sforzo di difendere quella che ritengo essere la posizione conforme ai tre criteri sopra indicati; la chiesa non possiede la verità, ma ne è posseduta e le deve intelligenza, obbedienza, servizio intellettuale e missionario
PS l’apologia di Socrate è una delle più alte pagine dell’umanità: l’autodifesa di un innocente di fronte a false accuse; l’innocente è stato poi condannato e ucciso, ma la sua autodifesa ci permette di inchinarci ancora alla sua superiore umanità ed appassionata testimonianza alla verità