La rubrica dedicata al Sinodo dei giovani firmata da don Armando Matteo per la rivista Vita pastorale prosegue «Dopo il Sinodo», con alcune considerazioni a partire dal documento finale. Riprendiamo di seguito la seconda delle puntate del dopo Sinodo (qui la prima).
Leggendo il secondo capitolo del documento finale del Sinodo sui giovani, mi ha particolarmente colpito l’indicazione per la quale i migranti possono diventare un vero e proprio “paradigma” per illuminare il nostro tempo e la condizione giovanile. Di più, proprio i migranti «ricordano la condizione originaria della fede, ovvero quella di essere “stranieri e pellegrini sulla terra” (Eb 11,13)». Come non menzionare a questo punto che proprio l’istituzione della parrocchia intende, sin dalle sue origini, esprimere questa capacità dei credenti di “abitare” non solo gli uni accanto agli altri, ma soprattutto accanto a tutti gli esseri umani nella concretezza di un luogo e di un tempo? Si dà nell’identità della parrocchia un principio di mobilità, adattabilità, prossimità che dobbiamo riscoprire.
La condizione di cambiamento profondo che proprio i migranti incarnano ci ricorda quanto, a livello più generale papa Francesco spesso ripete. E cioè che al presente non siamo in un’epoca di cambiamento, quanto piuttosto di fronte a un cambiamento d’epoca, che sta ridefinendo in modo assai profondo le esperienze umane fondamentali di giovani, adulti e vecchi accanto ai quali e per i quali esiste la parrocchia.
Da questo punto di vista, la rinnovata cura che la comunità credente intende dimostrare verso le nuove generazioni, a partire dal Sinodo, non sarà possibile senza una piena disponibilità di un cambiamento dell’intero impianto pastorale all’altezza del cambiamento d’epoca dato.
Già al paragrafo 105 di Evangelii gaudium, Francesco aveva rilevato una tale emergenza quando, a proposito di pastorale giovanile, evidenziava che «i giovani, nelle strutture abituali, spesso non trovano risposte alle loro inquietudini, necessità, problematiche e ferite». E questo perché «la pastorale giovanile, così come eravamo abituati a svilupparla, ha sofferto l’urto dei cambiamenti sociali». Del resto, basta puntare un attimo l’attenzione all’azione pastorale nei confronti delle nuove generazioni, per restarne profondamente toccati. Sono decenni, ormai, che con la cresima i giovani vanno via, senza sbattere porte, senza proclami e senza alcun senso di colpa.
Ricordarci della condizione di strutturale mobilità della parrocchia ci conduce ad un semplice ma decisivo interrogativo: possiamo o non possiamo cambiare il nostro modo di dire e di fare cristianesimo oggi? In altre parole: dobbiamo arrenderci al fatto per il quale la fede cristiana si sta riducendo a una cosa per bambini e finché si rimane bambini? O possiamo fare altrimenti, trasformando gli ambienti feriali delle nostre comunità da piccoli club di affezionati anziani in spazi attraenti e promettenti per tutti e dunque per giovani, adulti e anziani?
Molti di noi ricordano una delle ultime espressioni del cardinale Martini: come Chiesa siamo indietro di 200 anni! Una provocazione che non dovremmo lasciare cadere invano. Per amore dei giovani. Per amore del Vangelo.