C’è una domanda davanti alla quale ci ritroveremo: «ne è valsa la pena?». La cosa peggiore è trovarsi nella condizione di doverci pensare, temendo che sia arrivato il tempo di doverselo chiedere, quando ormai sia troppo tardi. Senza risposta.
E, se non si crede in nulla, è difficile trovare il modo di dire che − sì − ne è valsa la pena. Perché, se non si crede nell’amore, nella libertà, nell’uguaglianza, nella fraternità, in Dio, che dire?
Il nostro problema, dunque, lo ha posto bene Domenico Quirico su La Stampa di sabato 19 marzo, scrivendo una lettera a Francesco e chiedendogli di andare in Ucraina, a provare lui a fare il miracolo di fermare la guerra (cf. qui). Perché ora la guerra comincia a farci davvero paura. Ma se proviamo appunto a porci la domanda «ne è valsa la pena?», non sappiamo in nome di che cosa rispondere certamente «sì!».
La nostra cattiva coscienza
Avendo creduto nei diritti umani, almeno di quelli sotto le bombe, avremmo potuto o potremmo rispondere che «sì, ne è valsa la pena». Ma non è vero. Perché li abbiamo respinti − i predecessori degli ucraini − deportati dal loro Paese dallo stesso forcone, quello di Putin e del suo amico Assad, delegando la loro gestione ai turchi. Li abbiamo respinti − politicamente − chiudendo i nostri porti nel Mediterraneo, non solo col ministro Salvini, ma anche, meno manifestamente, con chi lo ha preceduto, il ministro Minniti, di altro segno.
Lo abbiamo fatto perché non abbiamo avuto così tanta paura che il loro destino potesse diventare il nostro. Se avessimo davvero creduto a fondo nella libertà, avremmo potuto o potremmo rispondere che «sì, ne è valsa la pena». Ma non è così. Tanto è vero che ora ci entra in testa l’idea che la soluzione migliore sarebbe la resa degli ucraini: la libertà ha un prezzo, se accettassero di pagarlo subito sarebbe tutto finito.
Ma non lo fanno e non lo vogliono fare. E visto che non lo fanno − e non crediamo neppure nella scelta di dirgli «arrendetevi e basta!» − ci comincia a crescere dentro una strana paura: e se non si fermasse questa maledettissima guerra? Se questa volta arrivasse davvero l’ora di chiederci «ne è valsa la pena», in nome di cosa potremmo rispondere «sì!»?
Solo amore ci salverà
Potremmo rispondere affermativamente se credessimo nell’amore, ma esiste qualcuno che oggi, in queste ore, sta pensando all’amore? Potremmo rispondere affermativamente se credessimo nella fraternità, ma abbiamo ceduto immediatamente alla russofobia, alla mortificazione di chi magari ora sta sfidando il tiranno, perché comunque ci serve un mostro. E il mostro non può essere nostro fratello.
Tanto che alcuni preferiscono, per comodità, rendere un mostro gli ucraini, coloro che fanno la guerra per procura del mostro più mostruoso di tutti, la NATO.
È ovvio che non credendo a fondo in nulla di tutto questo, non crediamo in Dio. Qualcuno la chiama scristianizzazione. Io la chiamo disumanizzazione.
E dunque non credendo a nulla, non possiamo credere neanche a qualcuno. In chi vogliamo credere? In chi potremmo credere? Nei leaders europei? Quelli che dal 2014 ucraino − l’anno della rivoluzione di piazza Majdan e dell’annessione della Crimea − hanno saputo soltanto, mentre già si applicavano sanzioni, aumentare la nostra dipendenza energetica dalla Russia? Nei leader statunitensi? Non sono forse quelli che hanno lasciato che si affermasse in Ucraina un modello di democrazia oligarchica opposta e speculare a quella russa?
L’affidabilità di Francesco
Così Quirico coglie la realtà drammatica nella quale ci troviamo. C’è solo Francesco a cui credere. Ma dire una frase del genere, cioè «credere in Francesco» è sbagliato, rischioso. Vuol dire qualcosa, ma dice qualcosa di diverso. La frase giusta è «Francesco è l’unico credibile». Ci possiamo affidare soltanto a lui.
Ha saputo condannare le azioni di Putin senza mai nominarlo. Ha saputo invitare gli ucraini a capire che il loro Paese, restando tale, doveva essere un ponte, non un muro, ma senza mai litigare con loro.
Questo però non basta per capire perché affidarsi a Francesco oggi appaia − a credenti e non credenti − l’unica via.
Non posso naturalmente rispondere interpretando sguardi diversi dal mio, perché sento che ci sono, ma non posso pretendere di rappresentarli.
Dico che non possiamo fare altrimenti di Francesco perché solo lui ci restituisce la forza di credere a qualcosa. Non tutti crediamo in Dio, ma tutti abbiamo bisogno di credere in qualcosa. Francesco ha restituito a tutti noi la possibilità di credere come possiamo, come sappiamo, come vorremmo o come penseremmo di volere.
Questa forza della sua fede, che non esclude dal suo orizzonte le fedi o i desideri di fede degli altri, lo ha reso, in questi anni, l’ultima persona affidabile, l’ultima autorità morale globale. Quale altra autorità morale globale esiste? È la stessa cosa che dice Quirico.
L’affidabilità di Francesco consiste nel fatto che tutti, a prescindere dai più pervicaci tifosi degli opposti fondamentalismi, possiamo fidarci di lui. Dunque, chi altro potrebbe rappresentarci, nelle nostre diversità, davanti alla guerra? Ma soprattutto: chi altro potrebbe comunque salvarci dal pericolo più grande per la nostra stessa umanità, quello di non sapere come rispondere alla domanda, «ne è valsa la pena?».
Nel vuoto del nostro credere
Affidandoci a Francesco sentiamo di poter ritrovare qualcosa di simile a una fede nella chiarezza contagiosa della sua. Anche se la nostra non coincide con la stessa, avvertiamo che la sua è talmente vera da saper comprendere anche la nostra.
E così ci affidiamo a lui perché sappia aprire perlomeno uno spiraglio e faccia diventare qualcuno di noi credente, almeno nei diritti umani, qualcun altro credente nella libertà, qualcun altro credente, persino, in Dio. Tutti in qualche modo credenti.
Così Francesco ci risolve il problema che non vogliamo davvero porci sino in fondo: il nostro vero problema è che laggiù, dentro, temiamo di non credere più a nulla.
Se credessimo davvero in quel che diciamo, non dovremmo chiedere a Francesco di credere per tutti noi. Potremmo dirci che «ne è valsa la pena e ne vale ancora la pena», solo dimostrando a noi stessi − adesso! − che la libertà, l’uguaglianza, la fraternità, sono ciò in cui veramente crediamo.
Giovanni Paolo II a Parigi definì queste «parole cristiane». Anche chi si richiama ai lumi le ha scelte. Credendoci ancora? Loro. Noi. Tutti.
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