Le drammatiche notizie provenienti, in questi giorni, dal Mediterraneo e collegate alla chiusura dei porti italiani, così come quelle relative allo smantellamento della struttura-modello di Cara di Castelnuovo, primo effetto del Decreto sicurezza, acquistano tutto il loro significato alla luce dei dati appena resi pubblici da Oxfam sul progressivo accrescersi delle disuguaglianze tra ricchi e poveri nel mondo.
Dati impressionanti, da cui emerge che, al di là della questione morale della solidarietà, al di là di quella politico-giuridica della giustizia – su cui vertono le polemiche tra i sostenitori della politica del nostro governo e i suoi oppositori –, ce n’è una più elementare, che riguarda il prossimo futuro del nostro pianeta e la possibilità di sopravvivenza delle società economicamente più progredite.
Un divario crescente
Diamo un’occhiata. Nei dieci anni dalla crisi finanziaria, che ha gettato nella miseria milioni di persone, il numero dei miliardari nel mondo è quasi raddoppiato, passando da 1.125 a 2.208.
Nello stesso tempo i 3,8 miliardi di persone, che costituiscono la metà più povera della popolazione del pianeta, hanno visto calare dell’11% le loro risorse. Già nel 2017 c’erano 26 persone nel mondo che possedevano quanto questi 3,8 miliardi più poveri.
Su questo trend, dopo il primo semestre del 2018 l’1% più ricco deteneva poco meno della metà (47%) della ricchezza aggregata netta, contro un magro 0,4% assegnato alla metà più povera della popolazione mondiale.
Illusioni sovraniste
Davanti a questo quadro le argomentazioni dei sovranisti europei e americani – che teorizzano, in nome degli interessi nazionali, il diritto giuridico degli Stati a chiudere le loro frontiere e a disinteressarsi di ciò che accade fuori di esse – ricordano quelle del manzoniano don Ferrante, che, nel bel mezzo dell’epidemia di peste, dissertava sul fatto che questo male non rientrava nelle categorie aristoteliche – non era, infatti, né una sostanza né un accidente – e perciò non esisteva. E che, mentre così ragionava, morì di peste.
Chiudere gli occhi sulla realtà non ha mai portato fortuna. E non ne porterà l’illusione che i soli problemi che contano sono quelli delle singole comunità nazionali.
Fino a quando i paesi ricchi potranno continuare a vivere in modo autoreferenziale, protetti da muri e porti chiusi? È solo un allarmistico catastrofismo, o non piuttosto una plausibile previsione che prima o poi la pressione esercitata dalle masse di poveri, disperatamente protesi a condividere qualcosa del benessere dei ricchi, finirà col travolgere questi fragili ripari con esiti imprevedibili?
Perché si migra
Abbiamo sentito speso ripetere in questi mesi la tesi secondo cui chi migra lo farebbe solo perché indotto dai trafficanti di uomini ad abbandonare il proprio paese – dove godrebbe di un relativo benessere –, con l’illusione di entrare in una Bengodi consumistica.
I dati pubblicati da Oxfam smascherano questa bufala. Il dramma della povertà è reale e le immagini di bambini ischeletriti, che muoiono ogni giorno a migliaia per mancanza di cibo, di acqua e di medicine, non sono dei fotomontaggi, ma rispecchiano una realtà drammatica, che chiunque sia in buona fede non può negare.
E del resto a dimostrare che gli scafisti non sono la causa del fenomeno migratorio, ma solo i criminali che sfruttano le condizioni di emergenza in cui si svolge – create peraltro dall’Occidente (perché non prendono comodamente un aereo per venire da noi, se non perché glielo vietiamo?) – è il fatto che queste persone continuano a partire, affrontando le terribili peripezie del deserto, dei lager libici e del viaggio in mare, e non certo perché all’oscuro di ciò che li attende – ipotesi assurda, nell’epoca del “villaggio globale” e dei cellulari – ma, evidentemente, perché spinte da una situazione di estremo bisogno.
Pensare di bloccare per sempre questa marea di poveri per garantire alla nostra società ricca il “diritto” di mantenere indisturbata il proprio livello di benessere non è (solo) egoismo: è una follia.
Accogliere o combattere le cause delle migrazioni
I casi sono due: o si accolgono queste persone, o si elimina la povertà che li spinge a migrare. L’Occidente – Europa e Stati Uniti – non sembra disposto a fare nessuna delle due cose. Dei muri e dei porti chiusi si è appena detto.
Quanto alle chiacchiere basate sullo slogan «aiutiamoli a casa loro», le sentiamo ripetere ormai da diversi anni, ma non hanno mai avuto – né sembrano destinate ad avere – il minimo riscontro in iniziative politiche paragonabili a quel piano Marshall con cui l’America finanziò la ripresa delle economie dopo la seconda guerra mondiale.
Anzi, mentre si dice «Aiutiamoli a casa loro», si continua in una politica neo-colonialista, in cui rientra il commercio delle armi, proficuo per le nostre economie che le vendono e rovinoso per chi le compra.
Si spiega così anche il fatto che, mentre la ricchezza dei ricchi aumenta a ritmi vertiginosi, un trend opposto caratterizza il processo della riduzione della povertà estrema, rallentato del 40% tra il 2015 e il 2018.
La povertà nei paesi ricchi
Si potrà obiettare che il divario tra paesi ricchi e paesi poveri non coincide con quella tra ricchi e poveri, perché anche nei primi si trovano sacche a volte imponenti di povertà. E questo renderebbe ragionevole occuparsi di queste, prima di accogliere degli stranieri o di investire nei loro territori per aiutarli.
Ma è veramente questo che si fa? Prendiamo l’Italia, dove da molti mesi la formula «Prima gli italiani», spesso intercalata con quella, più commovente, «Prima gli italiani poveri», è la giustificazione alla chiusura dei porti ai migranti in arrivo e al drastico taglio delle risorse per l’integrazione di quelli già presenti sul territorio.
La verità, però, è che far coincidere le due formule – come di fatto avviene nei discorsi dei leader politici – è solo un’astuzia retorica, usata per occultare il fatto che a essere difesi sono in realtà, gli interessi degli italiani ricchi, a scapito dei poveri, italiani o stranieri che siano.
Prima gli italiani ricchi: la ridistribuzione mancata
I dati di Oxfam dicono che nel 2017, in Italia, il 5% della popolazione era titolare da solo della stessa quota di ricchezza posseduta dal 90% più povero.
E, alla fine del primo semestre del 2018, il 20% degli italiani deteneva il 72% della ricchezza nazionale (pari complessivamente a 8.760 miliardi di euro, in aumento di 521 miliardi in 12 mesi), mentre un altro 20% della popolazione controllava il 15,6%, lasciando al rimanente 60% appena il 12,4% della ricchezza nazionale.
Davanti a questo quadro, il problema degli italiani poveri non sembra affatto consistere nell’eccessiva generosità dello Stato nei confronti degli immigrati, ma piuttosto nella sua incapacità – o nel suo deliberato rifiuto – di prendere delle misure serie per la redistribuzione della ricchezza tra gli italiani.
L’enfasi posta sul «Prima gli italiani» non può non apparire allora una gigantesca mistificazione per dirottare su altri poveri l’ostilità di una maggioranza – il 60% degli italiani! – che avrebbe dovuto invece concentrarsi sui privilegi del 40% di ricchi (e soprattutto di quelli del 20% di super-ricchi).
Il reddito di cittadinanza è una misura sociale efficace?
Qualcuno osserverà che il “governo del cambiamento” ha appena varato il «reddito di cittadinanza», volto proprio a sopperire a situazioni di indigenza.
Purtroppo, però, non si può non constatare che simili misure assistenziali – già peraltro ampiamente sperimentate in passato, soprattutto al Sud, con esiti fallimentari – sono una risposta sbagliata al problema della povertà, perché, invece di creare opportunità di lavoro con adeguati investimenti nel settore produttivo, si limitano a garantire un maggiore accesso ai consumi, confermando i poveri nella loro situazione di minorità, invece di aiutarli a riscattarsi diventando soggetti attivi nella creazione di ricchezza.
Buone intenzioni, dunque, la cui fragilità risalta maggiormente se le si mette a confronto con la terribile efficacia delle misure persecutorie che questo governo ha varato nei confronti dei poveri migranti e a quelle che, viceversa, premiano i ricchi disonesti (come la «pace fiscale», nome accattivante per mascherare l’ennesimo condono agli evasori).
Ritorna in mente l’epitaffio posto sulla tomba del cardinale Richelieu: «Ha fatto più del male che del bene. Senonché il bene che ha fatto lo ha fatto male e il male che ha fatto lo ha fatto bene».
Giuseppe Savagnone è direttore dell’Ufficio per la pastorale della cultura dell’arcidiocesi di Palermo, scrittore ed editorialista. Il post è stato pubblicato nella sua rubrica «I chiaroscuri», ospitata sul sito www.tuttavia.eu, lo scorso 23 gennaio 2019.