Ho letto con viva curiosità e con grande gusto la appassionata difesa di Amoris lætitia proposta in un saggio di Rocco Buttiglione (qui), di ben 36 pagine. Trovo che sia una prova di brillante argomentazione, di autentica disponibilità a comprendere la novità di AL e di decisa volontà di difenderla dagli attacchi cui è stata sottoposta, da ambienti molto vicini a Buttiglione e che egli conosce assai bene e dall’interno. Tanto più che Buttiglione propone questa lettura sulla base della “antropologia di K. Wojtyla”, dunque interpretando la tradizione matrimoniale avvalendosi non tanto dei testi magisteriali – che pure cita con grande insistenza – ma sulla base della tradizione filosofica e fenomenologica con cui Wojtyla ha dialogato nei suoi studi di gioventù. E che Buttiglione inserisce nella “svolta antropologica” del XX secolo.
La lettura del testo è piacevole e lascia l’impressione di una sintesi equilibrata, capace di valorizzare con accuratezza almeno una parte della novità di AL, collocandola con forza in profonda continuità con il magistero precedente.
Nel fare ciò, Buttiglione lavora con perizia su due livelli: quello della “dottrina e disciplina matrimoniale”, e quello del rapporto tra complessità e semplicità sociale e culturale. Forse proprio su questo piano risulta particolarmente felice l’assunzione della complessità all’interno del criterio di valutazione del testo, con una consapevole correlazione tra esperienza e verità, tra livello trascendentale e livello ontologico della tradizione.
La lettura complessiva, tuttavia, proprio perché preoccupata di rileggere tutte le novità come già “incluse” nel magistero di Karol Wojtyla – con una apologetica wojtyliana talora non poco sovraesposta – rischia di non cogliere due dinamiche fondamentali di AL:
– l’autocritica delle categorie e del modo di trattare le persone che è necessaria alla Chiesa per uscire da uno stile inadeguato e da una tentazione di autoreferenzialità che spesso ha trovato un singolare appoggio nelle logiche che confidano solo sulla “norma”;
– il ridimensionamento di un orizzonte metafisico ancora troppo rigido e idealizzato, con riferimenti ad una morale “fredda da scrivania”, soprattutto nel pensare il ruolo sinodale e corale del magistero e il ruolo che in esso gioca la coscienza;
Le pagine sulla “contraccezione” o sull’”adulterio” – per citare solo alcuni testi esemplari – offrono certo spiragli preziosi di argomentazione, ma sempre e solo all’interno di una concezione teologicamente datata e segnata da un eccesso di approccio apologetico, proprio perché non osano ripensare le categorie fondamentali con cui ragionar d’amore e di matrimonio. Buttiglione risente profondamente delle caratteristiche dello stesso Wojtyla, che era filosoficamente audace, ma si nutriva di una teologia spesso tanto classica quanto non aggiornata. La complessità appare più integrata in un modello apologetico, che non assunta come orizzonte per pensare la novità delle forme di vita matrimoniale. Il principio dello scandalo resta del tutto centrale e dirimente, come nel piccolo mondo antico della società chiusa: ma viene gestito e delimitato in modo nuovo, ispirandosi alla esperienza della società aperta, che entra solo trasversalmente, ma efficacemente, nel sistema.
Pertanto, nonostante questo limite obiettivo, bisogna salutare il testo di Buttiglione come un passaggio importante nella recezione di AL, perché dimostra in modo limpido e argomentato che anche guardando ad AL dalla prospettiva limitata di una società chiusa, con la retorica di una Chiesa centrata sull’ossessione istituzionale dello scandalo e sulla base di una teologia non aggiornata, è possibile valorizzare la bontà e la pertinenza della “svolta pastorale” di AL.
Buttiglione, proprio in ragione dei limiti della prospettiva con cui legge AL, offre buoni argomenti per smascherare, in modo ancora più efficace, i più gravi limiti dei detrattori dell’esortazione di papa Francesco. E dimostra ancora una volta che AL può diventare strumento prezioso per tutti: è testo autenticamente cattolico, nel senso migliore del termine. Purché si sia disposti a leggerlo “in bonam partem”. Anche chi vuole continuare a ragionare con le categorie della “società chiusa” può valorizzarlo con convinzione, purché sappia che la vita e la società sono irreversibilmente “aperte”: non solo con queste condizioni culturali la Chiesa deve sempre dialogare, ma da esse ha anche qualcosa di molto importante da imparare.
Pubblicato il 4 febbraio 2017 nel blog: Come se non