Pubblichiamo l’intervento di mons. Celestino Migliore, nunzio apostolico nella Federazione Russa, in occasione della tavola rotonda della Società ortodossa imperiale di Palestina (1° marzo 2018). La Società imperiale, fondata dagli zar nel 1857, costruì in tutta la Palestina, in 50 anni, una settantina di istituzioni educative e di edifici sacri. Soppressa nel 1917, è stata rifondata nel 2008 come istituzione a favore dei cristiani in tutto il Medio Oriente. Sostenuta dal patriarcato e dal governo di Mosca, rappresenta un braccio operativo della tutela che la Russia intende esercitare verso i cristiani nell’area medio-orientale.
Ringrazio il sig. Sergey Stepashin, presidente della Società ortodossa imperiale di Palestina, per l’invito a questa tavola rotonda su un tema di grande attualità e comune preoccupazione e occupazione da parte delle Chiese e comunità cristiane e sempre più anche dell’opinione pubblica.
Nella storia del cristianesimo, non è la prima volta che si cerca di decifrare se esista un futuro per il cristianesimo nel Medio Oriente e quale sia il suo ruolo. Lo stesso Gesù, vissuto in quelle terre, ebbe a dire: «un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua» (Mt 13,57). Ma, oggi, la domanda assume una urgenza particolare, perché il cristianesimo in varie regioni di quelle terre sopravvive in regime di persecuzione e di esodo.
Vari fattori storici, socio-culturali e politici hanno modellato il rapporto delle comunità cristiane nei confronti degli Stati e delle società civili mediorientali in cui esse sono inserite.
Protezione o inclusione?
Per secoli i cristiani hanno vissuto in condizione di minoranza, dotata degli statuti della Dhimma (contratto di protezione), e poi, sotto l’impero ottomano, del Millet (statuto personale).
Nel lungo periodo di sottomissione di quelle terre al mandato di potenze straniere, queste si incaricarono di garantire una speciale protezione ai cristiani, ma non hanno favorito la loro piena inserzione nel tessuto culturale e politico locale. Li hanno piuttosto esposti ad alcune tentazioni tipiche, come: adottare rapporti di accomodata sudditanza; militare nelle file del nazionalismo, elevandosi, così, in certo modo su un piede di parità con i concittadini musulmani; appoggiare tendenze separatiste intese a formare entità politiche autonome o a emigrare verso terre più accoglienti.
Lungo la storia esse hanno anche conosciuto episodi di persecuzione, ma oggi questa si rivela più grave che in qualsiasi altro periodo storico. L’obiettivo pubblicamente dichiarato di Daesh è di arrivare alla completa eliminazione delle comunità cristiane e delle altre minoranze attraverso processi violenti e esodi di massa.
Il Rapporto “Perseguitati e Dimenticati” (2015-2017), della Fondazione «Aiuto alla Chiesa che soffre», dimostra non soltanto che i cristiani sono oggi la comunità maggiormente perseguitata nel mondo, ma anche che questo tipo di persecuzione rischia di portare all’estinzione delle comunità cristiane in paesi e in regioni cruciali come il Medio Oriente, il subcontinente indiano e l’Africa sub-sahariana.
Non mi dilungo su fatti tragici, né sull’enumerazione delle tristi statistiche della diminuzione dei cristiani in Medio Oriente, perché altri relatori l’hanno fatto e lo faranno con competenza e accuratezza.
Piuttosto vorrei tentare di decifrare il ruolo e il futuro che le comunità cristiane hanno nel Medio Oriente e nell’Africa settentrionale.
L’orientalista francese Louis Massignon (1883-1962) scriveva, con accenti forse enfatici ma accorati, di essere convinto che l’islam abbia nella storia del cristianesimo il ruolo di una «lancia evangelica» che da tredici secoli pungola i cristiani, richiamandoli a vivere all’altezza del messaggio che essi proclamano.
I monaci trappisti di Tibhirine in Algeria, minacciati da militanti islamisti, nel non lontano 1996, si rifiutarono di lasciare il loro monastero, convinti dell’importanza della loro testimonianza di preghiera e di amore verso ogni loro prossimo, inclusi i terroristi che, in caso di necessità, essi erano pronti a curare, in un clima devastato dalla guerra civile. La loro non fu ingenuità, ma una coraggiosa scelta evangelica che hanno pagato con la morte.
In tante situazioni, le minoranze cristiane rappresentano l’“altro”, il “diverso da noi” che si vuole sopprimere per il suo messaggio pluralistico. E questo è il senso dell’investimento che le comunità cristiane, aiutate dalla solidarietà dei cristiani di altri Paesi, hanno prodigato nel mantenere aperte scuole, ospedali e forme di presenza e di contributo cristiano alla vita sociale e civile nei Paesi del Medio Oriente.
Cittadini a titolo pieno
Come sostiene il segretario generale del Comitato islamico permanente del Libano, Mohammed Sammak, tante società, private della minoranza cristiana, sarebbero a rischio di totalitarismo religioso.
Appoggiare questo ruolo delle comunità cristiane in Medio Oriente è proprio del paradosso rivoluzionario del cristianesimo, impensabile prima di Cristo, paradosso che, alle origini del cristianesimo, ha cambiato un’intera civiltà.
Il cristiano in quanto tale non può che aprirsi agli altri, anche in contesti socio-culturali difficili e ostili; non può che perdonare – come hanno fatto i monaci di Tibhirine –, come segno di un criterio diverso posto da Dio nel mondo.
Ma, se il cristiano deve perdonare, lo Stato e la comunità internazionale debbono difendere ogni cittadino, qualunque sia il suo pensiero, affinché vengano evitate discriminazioni, ostracismi, segregazioni e talora addirittura persecuzioni violente.
La Chiesa deve perdonare, ma lo Stato deve difendere. Gli Stati e la comunità internazionale debbono garantire tutte le libertà e i diritti di ogni cittadino attraverso un concetto paritario di cittadinanza.
Il futuro delle comunità cristiane e di altre minoranze religiose nel Medio Oriente e in ogni angolo della terra dipende molto dal concetto di cittadinanza.
Laddove identità nazionale e cittadinanza sono religiosamente fondate, cioè strettamente legate ad una religione, le violazioni della libertà religiosa e addirittura la violenza in nome della religione possono diventare parte dello stesso sistema giuridico, sociale e culturale.
La cittadinanza non può essere basata sulla tolleranza ma sui diritti fondamentali che spettano ad ogni persona umana.
Il rinnovamento costituzionale dopo la “primavera araba” nei Paesi del Nord Africa (Egitto, Marocco, Tunisia) e nei processi di costruzione della pace dopo lunghi conflitti nel Medio Oriente, come nel caso dell’Iraq, hanno offerto un’occasione unica, ma purtroppo non colta appieno, per l’introduzione di un concetto chiaro e univoco di cittadinanza basato sul riconoscimento paritario dei diritti e dei doveri del cittadino in quanto titolare di diritti fondamentali indipendentemente dalla sua appartenenza religiosa, etnica o tribale.
Nella recente Conferenza pan-siriana, svoltasi a Sochi, si è parlato di una Commissione che, sotto l’egida dell’ONU, dovrebbe lavorare alla redazione di un progetto di riforma della Costituzione siriana.
Si auspica e si lavora affinché questo nuovo esercizio tenga presente un adeguato concetto di cittadinanza: solo così si potrà assicurare un futuro decente alla comunità cristiana e alle altre minoranze religiose in quel martoriato Paese.
Oggi la sensibilità al dramma dei cristiani è cresciuta. Gli ambiti internazionali, le istituzioni europee e alcuni Stati, finora troppo cauti nel parlarne, riconoscono che ormai i cristiani sono la comunità più perseguitata nel mondo. Non è un problema confessionale, ma di coscienza civile e istituzionale. Occorre parlare di questo dramma e sensibilizzare l’opinione pubblica. Le Chiese si interrogano su come essere solidali con i cristiani in difficoltà. Gli Stati e la comunità internazionale debbono assumersi la responsabilità di dare spazio ai diritti umani nelle Costituzioni e nella politica nazionale e internazionale.