Nella luce del Solstizio

di:

newgrange

Cinquemiladuecento anni fa (seicento prima delle piramidi, settecento prima di Stonehenge, millecinquecento prima di Abramo), su una collina posta nella parte centro-orientale di quell’isola che poi si sarebbe chiamata Irlanda, fu costruito un rialzo artificiale. Oggi è noto come il Tumulo di Newgrange.

Il suo diametro è di quaranta metri; è circondato da pietre scolpite e adornato da ciottoli bianchi e neri. Al centro vi è una camera sepolcrale a forma di croce, con alcuni spazi per le ceneri dei defunti. Per raggiungere quella camera si deve percorrere, uno alla volta e chinati, un angusto cunicolo. Al centro il buio è quasi assoluto, e solo la più assolata giornata estiva riesce a far filtrare un debole chiarore.

La mattina del 21 dicembre, a Newgrange, il primo raggio di sole imbocca una stretta apertura posta poco al di sopra del corridoio. Percorre i venti metri di cammino tra le ombre. Raggiunge e illumina le tombe. È uno spettacolo che, anche quando viene riprodotto con mezzi artificiali, fa venire i brividi.

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Nessun raggio di sole, per quanto appartenente a un giorno speciale come quello del 21 dicembre, è mai riuscito a ridare vita a delle ceneri. Lo sapevano anche i misteriosi costruttori di quella tomba (che oggi fa parte di un complesso dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO). La festa del Solstizio non è la celebrazione del sole vincitore, che torna a trionfare sulle tenebre. È la celebrazione di ciò che quella luce simboleggia: è quella speranza di nuova vita. Che come un raggio di sole può essere accolta, ma non afferrata. Che ci riguarda, che ci coinvolge, ma che non possiamo catturare.

Faccio fatica a definire «pagana» la festa del Solstizio («pagano», nel gergo ecclesiale corrente, è sinonimo di «commerciale»). Potremmo definirla «umana». Quando, intorno al 320, la Chiesa di Roma decise di collocare il Natale di Cristo in quella data, sapeva benissimo quello che stava facendo. Non stava «soppiantando» alcunché. Stava dando una risposta a una speranza antica. «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio» (At 17,23). «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2).

Oltre alla luce che squarcia le tenebre, la festa del Solstizio prevede anche altri simboli, che a torto riteniamo cristiani. L’albero sempreverde, il dono, il cibo fuori dall’ordinario, soprattutto la tenerezza verso la vita che nascostamente ma con determinazione promette di rinascere. Come il lievito in mezzo alla pasta – e senza la pretesa di poter fare a meno degli altri ingredienti – i cristiani hanno semplicemente cercato di dare pienezza a quella speranza, annunciando il Nome del dio ignoto, la Parola che si è fatta Figlio.

Su questa duplice base, umana e cristiana, non credo affatto che il senso del Solstizio/Natale sia a rischio di estinzione. Per lo meno, oggi non lo è più che in altre epoche. Abbiamo creduto di cristianizzare certi simboli, o ci siamo lasciati paganizzare da essi, a fasi alterne e spesso confuse: niente di nuovo. Un esempio: quanto è «pagano» il Capodanno? «Materialisticamente» parlando, l’anno può essere fatto coincidere con il ciclo della natura e inizia dunque, alle nostre latitudini, con marzo (vi è stata un’epoca in cui il settimo mese poteva legittimamente chiamarsi settembre, l’ottavo ottobre, il nono novembre e il decimo dicembre…). Se vogliamo, la vera festa «pagana» (sensuale e consumistica) è dunque il Carnevale. Nel Medioevo, l’uso di contare gli anni dalla data (convenzionale) della nascita di Cristo fece invece coincidere il Capodanno con il Natale (da qualche secolo il nuovo anno inizia, per praticità, all’inizio del mese più prossimo ad esso). In sintesi: dalla festa della natura che prorompe, visibile e vivibile, si è passati alla festa della speranza nel Dio che dà la vita (e del quale il Sole è il simbolo meno approssimativo: Matteo 17,2; Luca 1,78; Apocalisse 1,16). Dove finisce l’«umano» e dove inizia il «cristiano», in tutto questo?

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Con meticoloso impegno, fatto di attente misurazioni e di smisurate fatiche, i nostri antenati costruirono e adornarono il Tumulo. All’esterno, su grandi pietre, scolpirono il simbolo della spirale. Anche oggi, nel turbine paraconsumistico, ci muoviamo «a spirale» attorno a qualcosa che esprime ancora quello stesso senso originario, «umano», del Natale. Il dono, la sorpresa, la gratuità, la speranza dell’irruzione del divino nella nostra vita. A Natale possiamo gioire di questo insieme ai fratelli di ogni fede e convinzione. Tutto il resto è Pasqua.

Pubblicato su Il Margine, n. 10/2006.

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