Riprendiamo di seguito il testo dell’intervento tenuto dal presidente della CEI al Meeting di Rimini lo scorso lunedì 19 agosto 2019 (dal sito della conferenza episcopale italiana).
Cari amici e care amiche,
rivolgo un saluto affettuoso agli organizzatori, ai volontari e a tutti i presenti. Vi ringrazio di cuore per l’invito che mi avete fatto. Un invito che ho accolto con gioia perché per me è sempre un piacere e un onore venire al Meeting.
“Non fatevi rubare i sogni, sono il futuro”. È un bellissimo titolo quello che avete scelto per questo incontro. Un titolo che rappresenta una sfida perché oggi parlare di “sogni” e di “futuro”, soprattutto se riferito ai giovani, potrebbe far pensare superficialmente ad una prospettiva di spensieratezza oppure alla dimensione della carriera. Ma non è così. Ben più alta è la meta a cui i nostri giovani sono chiamati. Una meta di cui si possono trovare le coordinate nell’Esortazione post-sinodale Christus vivit. Voglio iniziare questo mio breve intervento citandone un piccolo passo:
Se hai perso il vigore interiore, i sogni, l’entusiasmo, la speranza e la generosità, davanti a te si presenta Gesù come si presentò davanti al figlio morto della vedova, e con tutta la sua potenza di Risorto il Signore ti esorta: «Ragazzo, dico a te, alzati!» (Lc 7,14).
Si tratta di un passaggio importante perché mette in evidenza almeno tre elementi importanti: la speranza, la fede e la concretezza. Da ormai molti decenni, nel discorso pubblico, è usuale parlare dei giovani attraverso un linguaggio denso di retorica e buoni sentimenti, ma con poca attenzione alla vita concreta dei ragazzi e soprattutto con un discutibile senso di responsabilità verso di loro. Quando parlo di vita concreta mi riferisco ovviamente ad una vita piena in cui la dimensione spirituale ha un peso importante. Una dimensione spirituale che non cancella né la capacità di sognare e né la volontà di aiutare l’altro.
Vorrei ricordare, a questo proposito, la figura di una donna che ci ha lasciato pochi giorni fa, ma che ha incarnato la dimensione della fede, la capacità di sognare e la capacità concreta di aiutare le giovani donne e i piccoli. Mi riferisco a Paola Bonzi, la fondatrice del Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli di Milano che è stata capace di “ridare il sorriso alle mamme” e di dare la vita a migliaia di bambini. A Paola che ha dedicato la sua vita interamente ai giovanissimi vorrei dire, a nome mio e della Chiesa italiana, grazie per tutto quello che hai fatto.
La concretezza di andare verso il prossimo, dunque, non è in contrapposizione con la capacità di sognare. Anzi, sono due dimensioni intimamente legate e tenute assieme dalla gioia di seguire Gesù abbandonando le sicurezze del mondo. Il desiderio di successo personale, di farsi dio di se stessi e di possedere somme ingenti di denaro rappresentano i grandi miti della nostra società. Più di ogni ideologia politica, le giovani generazioni rischiano di essere attratte da un materialismo nichilista senza alcuna cura verso l’altro che sta nella sofferenza e senza uno slancio autentico verso il futuro.
Oggi, molti giovani, condizionati da una società edonista che troppo spesso banalizza le amicizie e i rapporti umani, conducono una vita individualistica che non permette di apprezzare, fino in fondo, il senso del “vivere insieme”. Questo è a mio avviso uno snodo decisivo: occorre restituire il significato profondo del concetto di relazione. Perché è solo attraverso la relazione con gli altri che un giovane può diventare parte di un corpo vivo: di una famiglia, di una comunità cittadina, di una scuola, di un’associazione e di una comunità ecclesiale.
Quando parlo del concetto di relazione mi riferisco ad almeno tre dimensioni. Innanzitutto, la relazione con il corpo. È la prima forma di relazione che abbiamo con noi stessi e poi con gli altri. Attraverso il corpo impariamo a conoscerci ma anche a conoscere chi ci sta di fronte. Conosciamo la fisicità, la limitatezza e le differenze tra i corpi: la differenza tra maschile e femminile, e la differenza morfologica, come ad esempio il colore della pelle. La dimensione della corporeità è oggi una delle dimensioni più importanti e al tempo stesso più banalizzate dei giovani nel mondo contemporaneo.
Il corpo, infatti, ha fatto irruzione nella società di massa con tutta la carica simbolica impressagli dalla rivoluzione sessuale nel XX secolo. Una rivoluzione che è stata soprattutto giovanile e femminile. Ma il corpo oggi assume anche la carica drammatica delle guerre o delle morti di massa, come le morti dei migranti, trasmesse in video dai mass media. Questo è un punto su cui riflettere a fondo: è fondamentale riattribuire alla relazione con il corpo un significato autentico, combattendo ogni banalizzazione e ogni deriva ideologica. Da questo punto di vista, la riflessione sul corpo di Giovanni Paolo II è di grande importanza.
In secondo luogo, le relazioni interpersonali. Attraverso le relazioni con gli altri, ogni persona diventa un membro di un corpo vivo: è parte di una famiglia, di una comunità cittadina, di una scuola, di un’associazione, di una comunità ecclesiale. “Nessun uomo è un’isola, in sé completa” scriveva Thomas Merton ma “ognuno è un pezzo di un continente, una parte di un tutto”. Le parole del monaco trappista statunitense ci esortano a riconoscere, dunque, che ogni uomo o donna, per l’amore di Dio che opera nella vita di ogni persona, non è mai solo ma è parte dell’umanità intera.
Eppure proprio oggi questa dimensione dei rapporti interpersonali tra i giovani è una delle questioni più controverse della società attuale. C’è chi ha parlato di liquidità dei rapporti umani e chi ha evocato una società in polvere. Vorrei sottolineare oggi soltanto due aspetti: innanzitutto, la dimensione spersonalizzante di moltissimi giovani che vivono sia nelle grandi metropoli che nelle periferie abbandonate delle nostre città; in secondo luogo, la dimensione di amicizia superficiale e di solitudine delle giovani generazioni che quotidianamente vivono gran parte delle loro relazioni sul web attraverso i telefoni o i computer. I numeri della pornografia su internet, per esempio, sono impressionanti e preoccupanti. Non si può guardare con superficialità a queste problematiche. Occorre fornire una risposta alta e concreta, al senso di spaesamento che respirano i nostri giovani nelle città, e al senso di confusione e di permissivismo che vivono su internet.
E infine, la relazione con il trascendente e con la Chiesa. Ho volutamente richiamato per ultimo quello che è ovviamente la grande questione dei tempi moderni: il rapporto con Dio, con la fede e con la Chiesa in una società secolarizzata. Il rapporto tra i giovani e la Chiesa risente ovviamente del clima sociale ma è senza dubbio un rapporto complesso e non certo univoco: a tratti intenso, a volte intimo, spesso incostante e di breve durata.
Molte volte abbiamo dei giovani che dalla tenera età fino al matrimonio crescono e rimangono all’interno di gruppi ecclesiali. Il più delle volte, però, ci troviamo di fronte dei giovani che hanno un “rapporto a tempo” con la Chiesa: con l’arrivo dell’età adolescenziale questo rapporto in molti casi si incrina fino a rompersi. Spesso seguendo un percorso biografico comune, segnato da un rapporto con il corpo e con gli altri banalizzato, oppure perché scandalizzati dai peccati della Chiesa.
Tutto questo, ci deve far riflettere profondamente e porre più di un interrogativo come pastori, come famiglie e come laici. C’è infatti alla base una grande e irrisolta questione educativa: un’educazione alla fede, al valore della vita e al saper abitare la comunità. Mai come oggi, dunque, siamo chiamati ad essere Chiesa in uscita verso i giovani e penso che siano straordinariamente attuali le parole di Paolo VI quando disse che “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.
A questo proposito, penso che sia estremamente utile un mio ricordo personale che ho già avuto modo di raccontare per la canonizzazione di Paolo VI. Nei primi anni Settanta – in un periodo in cui il rapporto tra la Chiesa e le nuove generazioni era fortemente incrinato – accompagnai in Vaticano, in qualità di Rettore del seminario minore, circa 400 giovani dei Villaggi della Gioventù di Pino Arpioni. Giorgio La Pira guidava il gruppo di giovani pellegrini delle Chiese toscane.
Il Papa rimase piacevolmente colpito da quella presenza giovanile, quasi ammutolito dalla presenza numerosa dei ragazzi. Ad un certo momento si rivolse direttamente all’ex sindaco di Firenze, che conosceva bene e stimava, chiedendogli quali fossero i contenuti della formazione che venivano impartiti a questi giovani. La Pira con il suo solito eloquio appassionato gli rispose che a quei giovani – che vivevano un mondo dove soffiava forte il vento della secolarizzazione – si parlava senza difficoltà di Cristo, della purezza di Maria, stella polare della Chiesa, e della barca di Pietro il cui nocchiero era il Papa.
A quella risposta così inconsueta, seguì una sorta di dialogo pubblico tra La Pira e Montini. Il Pontefice prima sottolineò l’importanza della responsabilità dei maestri verso i propri scolari, e subito dopo pronunciò a bassa voce una sua riflessione sul futuro della Chiesa: “io mi domando spesso”, disse Montini, “cosa diranno gli uomini del futuro della Chiesa dei nostri tempi. Mi augurerei che potessero dire: era una Chiesa che soffriva ma che con tutte le sue forze amava l’uomo”.
In queste parole pronunciate davanti ai giovani pellegrini toscani si può cogliere il senso della sfida odierna del rapporto tra gli adulti e i giovani perché, da un lato, rimanda alla credibilità della testimonianza cristiana e dall’altro lato, evoca la centralità della dimensione della responsabilità nei rapporti umani.
Credibilità e responsabilità che a mio avviso si possono sintetizzare in due parole di straordinaria importanza per le giovani generazioni: vocazione e talenti. Ogni ragazzo, infatti, ha nel suo cuore una vocazione e alcuni talenti e, diciamo pure, di sogni. E ce li ha, non per un particolare capacità umana, ma per un atto di donazione gratuito e unilaterale. Un dono d’amore del Padre. Spetta ad ogni giovane, nella libertà, saper riconoscere questi doni per poi utilizzarli sapientemente nel corso della vita.
Gli adulti hanno però un compito importante: quello dell’annuncio. E in particolare saper annunciare ai nostri giovani che ogni vocazione è “una chiamata d’amore”. Una chiamata a vivere un’esistenza bellissima, che vale la pena di essere vissuta in pienezza. Senza scorciatoie e compromessi. Senza cedere alle lusinghe effimere della società e senza inginocchiarsi ai falsi idoli del mondo. La vita vera è infatti una vita di incontro e non di divisione; una vita di carità e non di potere; una vita di amore e non di sentimenti. Perché saremo giudicati sull’amore. E sull’amore siamo chiamati a discernere la nostra vocazione.
La seconda parola su cui vorrei invitarvi a riflettere è talenti. Una parola importantissima che, purtroppo, è drammaticamente bistrattata. I giovani che io conosco – e che ho conosciuto in molti anni di sacerdozio – sono infatti giovani ricchi. Anzi, ricchissimi. Non di denaro ma di talenti. Nella maggioranza dei casi, però, questi talenti non vengono riconosciuti. Rimangono sepolti nel deserto o, forse dovrei dire, nella palude della nostra società. Ho purtroppo la netta sensazione che il nostro Paese non riesca minimamente a valorizzare i talenti, le capacità e le attitudini dei nostri giovani.
In moltissimi casi, infatti, ci troviamo di fronte a delle persone che vivono un profondo “non senso” esistenziale perché non riescono ad intravedere il futuro. È triste quel Paese che non sa dare speranza ai propri figli! È triste quel Paese che non sa progettare il futuro, che non riesce a sanare le ferite della propria storia.
In questi anni, ho incontrato e conosciuto moltissimi ragazzi che hanno voglia di mettersi in gioco, che hanno desiderio di mostrare le proprie capacità e di applicare quello che hanno studiato, ma hanno perso la speranza di trovare un ruolo e un posto in questa società avida e arida. Hanno perso cioè speranza di trovare un lavoro degno che non sia fatto solo di precarietà e umiliazioni quotidiane. E ormai da tempo si è sviluppato un fenomeno di cui si parla poco sui media: l’incremento costante dell’emigrazione dei giovani italiani all’estero.
Perché è accaduto questo? I motivi sono molti ed estremamente complessi. Quello che però ho visto negli ultimi anni – come Pastore e non certo come analista – è lo sviluppo progressivo di una società vecchia e immobile. Vecchia non solo per l’età quanto per lo spirito. Uno spirito di corporazione e conservazione che fa sopravvivere consorterie e oligarchie, amicizie e spirito di clan.
Ma di fronte a tutto questo, ecco che tornano le parole che ho letto all’inizio. Gesù che dice di fronte al giovane morto: “Ragazzo, dico a te, alzati!”. Ai giovani e alle loro famiglie oggi dico anche io: ragazzi alziamoci, facciamolo insieme, senza paura, con coraggio e gioia pura. Perché, come ripete spesso Papa Francesco: “non lasciatevi rubare i sogni”; essi non sono pure evasioni, ma fondamento di un futuro tutto da creare con coraggio e con la forza dello Spirito.
La vissuta ricerca del senso, dei valori, talora in varia misura rigida, non così pronta a comprendere l’umano. E l’alternativa di cogliere l’umano in una riduttiva razionalità e/o nella mera esperienza. Con le scoperte scientifiche del ‘500-600 le tensioni tra questi in vario modo necessari plurisecolari orientamenti possono essere esplose anche a causa di una visione dei significati profondi obbligata da una fede talora troppo schematica.
Molti filosofi hanno tentato in quell’epoca di conciliare le citate tendenze e al tempo stesso di salvaguardarle dalle possibili fasulle ingerenze dell’una nei confronti dell’altra.
Ma non è stato facile. L’uomo è a lungo rimasto scisso tra lo spirito e un resto dell’umanità che proprio per la perdita di un vitale centro unificante è risultata ulteriormente frammentata tra una riduttiva razionalità, pure suddivisa in branche, l’affettività, il mero operare.
Questi schematismi hanno evidentemente comportato incomprensioni, forzature, svuotamenti, nella vita dei singoli e della società. Ma negli ultimi decenni prende spesso nascostamente ad aprirsi la strada di un’autentica sintesi. La via della coscienza spirituale e psicofisica, che tende a maturare senza cervellotismi, astrazioni, inutili lassismi. L’uomo torna in contatto col suo cuore libero, semplice, pieno di buonsenso nella luce. E in questo percorso sentendosi compreso, amato, rasserenato, viene guarito dalle sue paure, ferite, complicazioni. E anche con semplicità aggiusta vissutamente il tiro in ogni ambito del vivere.
Al tempo di Galileo una tale pista avrebbe condotto un credente a continuare a maturare nella fede avvedendosi di alcune inferenze errate che da essa talora nella Chiesa si traevano. Un continuo ricalibramento complessivo, spirituale e psicofisico. Alla fine sorprendentemente semplice, naturale. Per chiunque, anche per un ateo nella sua personalissima vissuta ricerca integrale.
Aperti alla luce serena, agli altri. Sempre meno incastrati in strutturazioni fasulle, riduttive, formali. Una sempre nuova consapevolezza del cuore, capace di leggere nella vita degli altri, i loro bisogni. Di cogliere le vie per sciogliere i nodi. Anche nella società. Un’approfondita scoperta del rivelarsi di Dio, della vita per un non credente, ai piccoli. Della nuova creazione in Gesù, non per nulla Dio e uomo.
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