Il 6 aprile 2018 p. Heiner Wilmer, superiore generale dei dehoniani, è stato nominato vescovo della diocesi di Hildesheim in Germania da papa Francesco. In una lettera di saluto e ringraziamento ai confratelli e alla Famiglia dehoniana, p. Heiner ripercorre gli snodi cardine proposti dall’amministrazione generale nel corso del triennio del suo ministero. La pazienza saggia del seminatore, uno stile di continuo apprendimento per portare la spiritualità dehoniana e le attività della Congregazione in una nuova epoca ed essere all’altezza delle sue sfide, la parola evangelica che deve essere annunciata e vissuta sempre di nuovo in contesti che mutano e sono estremamente diversi tra loro, una dedizione specifica ai poveri e alle forme di marginalità che si producono in regime di globalizzazione. Ne emerge uno stile di governo, un modo di intendere la responsabilità e cura dei vissuti di fede, che abbozzano i tratti maggiori del ministero che assumerà nella diocesi di Hildesheim, per essere tra i suoi un «collaboratore della vostra gioia» (cf. 2Cor 1,23).
Cari confratelli,
cari membri della famiglia dehoniana,
come sapete papa Francesco mi ha nominato vescovo della diocesi di Hildesheim in Germania. Questa chiamata mi ha colto di sorpresa, è stato qualcosa di completamente inatteso. Per me significa una svolta netta, ma lo stesso vale anche per voi – per la comunità dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù. È giunto il momento, con piena fiducia in Dio, di prendere congedo. I giorni di questo cambiamento sono pieni di pensieri, rivolti sia al passato sia al futuro. Cosa abbiamo potuto mettere in moto, come Consiglio Generale, in questi tre anni? E cosa posso portare con me in Germania nella diocesi di Hildesheim?
Il tempo della semina
Quando, dopo la nostra elezione, avvenuta durante il Capitolo Generale, nell’autunno del 2015, noi come Consiglio Generale vi abbiamo scritto una lettera programmatica, vi abbiamo proposto, nel proemio, la figura di Abramo come colui che ci avrebbe dovuto accompagnare nel nostro cammino di cambiamento e rinnovamento. In lui vedevamo l’immagine per quella dinamica che ci ispirava. Oggi leggo questa ingiunzione di Dio in un’altra luce. Per questo vorrei citare qui ancora una volta quella lettera:
«“Lascia la tua terra, se puoi”. No, non è così che Dio si è rivolto ad Abramo. Dio non gli ha detto “se puoi”. Al contrario, Dio è stato chiaro, diretto, senza possibile fraintendimento: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che ti indicherò” (Gen 12,1). Nessun indugio, nessun tentennamento. Ne andava del piano di Dio e non dei desideri di Abramo. Una nuova vita, una nuova felicità, un’esistenza sotto la benedizione, e in pienezza: per lui e per gli altri. Abramo è il credente che si lascia dare forma da Dio, che ha il coraggio di mettersi in movimento, e che diventerà egli stesso una benedizione per gli uomini e le donne (Gen 12,2), che sono incalcolabili come le stelle del cielo e la sabbia del mare (Gen 15,5)».
Vi abbiamo proposto tre snodi programmatici che dovevano indicarci il cammino in questo nostro metterci in movimento: la formazione, ossia il formarsi e i percorsi formativi; la nuova evangelizzazione e l’annuncio; il vivere con i poveri.
Elencare tutti i punti e gli aspetti di cui ci siamo occupati come Consiglio Generale esula dalle intenzioni di questa lettera. Permettetemi però, come saluto, di richiamare ancora quei temi che sono stati personalmente importanti per me nel lavoro comune del Consiglio Generale. È nella natura stessa delle cose che la loro realizzazione sia un processo in corso non ancora giunto a piena realizzazione. Certo, guardo anche a quello che si è riuscito positivamente a fare e a quanto abbiamo già raggiunto. Ma non si tratta di risultati da ottenere velocemente, quanto piuttosto di mettere in moto dei processi. Quello che ci stava a cuore, in un mondo divenuto oggi così complesso, era rendere possibile degli sviluppi i cui esiti si sarebbero dati oltre il termine del mio mandato come Superiore Generale, magari addirittura oltre il tempo della mia vita. Si tratta, quindi, del tempo della semina e non di quello del raccolto.
Formazione
Per il nostro fondatore p. Dehon formazione ed educazione, la dedizione a favore dei giovani, avevano un significato centrale e portante. Per lui non si trattava tanto di un impegno caritativo, ma di un impegno politico. Dehon affermava, infatti, che se si vuole risolvere alle radici una situazione problematica e precaria, e non limitarsi a qualche intervento di carattere puntuale, allora il mezzo migliore è quello di mettere le persone stesse nella condizione di potersi liberare da quelle situazioni.
Noi dehoniani ci dobbiamo formare e posizionarci nel nostro tempo in un modo che corrisponda a questa persuasione del fondatore. Per questo motivo, aiutati dal confronto con i superiori e i formatori, abbiamo dato inizio e forma alla promozione e sviluppo dell’«anno apostolico», raccolto nella nostra lettera programmatica. Ogni confratello, nella misura del possibile, deve trascorrere un anno in un paese straniero, in una lingua che non sia quella madre, in una cultura non conosciuta, per collaborare a un progetto sociale. Di questo siamo profondamente persuasi: non si può parlare dello straniero senza aver fatto esperienza in prima persona di qualcosa che ci è estraneo, di essere stati noi stessi stranieri in territori del vivere non nostri. E qui ci tornano alla mente le parole di p. Dehon: se vuoi amare qualcuno devi conoscerlo. Se vuoi conoscere qualcuno devi andare da lui. Con questo egli intendeva che noi dobbiamo prendere sul serio l’aspetto corporeo dell’idea. Per amare ci dobbiamo immedesimare negli altri. Sullo stesso solco si muove il nostro Santo Padre, papa Francesco, quando afferma che «la realtà è superiore all’idea» (EG 233).
Il 14 marzo 2018, in occasione della memoria del compleanno del nostro fondatore, ha avuto inizio nella nostra Congregazione l’«anno del cuore ferito». Eravamo convinti che il costato trafitto di Gesù fosse l’icona del XXI secolo. Esso è l’immagine delle fragilità e ferite del nostro tempo. Il cuore aperto di Gesù include e accoglie tutte le ferite fisiche e psichiche, anche le nostre. Prenderle come cosa seria, esporle apertamente, significa prendersene cura e rimarginarle – in maniera umana, carica di comprensione, con una disposizione empatica. Così siamo giunti alla convinta persuasione che la dedizione per gli uomini e le donne affranti, segnati nella loro vita, poteva essere autentica solo se io stesso vedo e sono capace di accogliere la mia fragilità, il mio cuore ferito.
Nuova evangelizzazione e annuncio
Fin dagli inizi ci hanno ispirato le parole di Gesù: «andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15). È quanto p. Dehon stesso ci ingiunge di fare: «uscite dalle sagrestie!». Per il nostro carisma significa abbandonare le zone confortevoli, tranquille, per andare verso gli uomini e le donne davanti ai quali siamo in debito dell’annuncio della lieta notizia. Mi ha sempre spronato una parola di Joachim Wanke, che è stato per lungo tempo vescovo di Erfurt: «che una Chiesa non cresca può anche essere. Che una Chiesa non voglia crescere è però del tutto insopportabile» (Tempo della semina, 2000).
Come Consiglio Generale abbiamo, quindi, deciso di esplorare nuove fondazioni e studiare la possibilità di metterci in cammino verso nuovi luoghi. Tra questi, Nigeria e Kenya, Columbia e Messico, Hong Kong; ma vogliamo anche fare nuovi passi in Europa. Come l’apostolo Paolo orienta la sua attività missionaria alle grandi città (Corinto, Colossi, Tessalonica, Atene e da ultimo Roma), così vogliamo anche noi dare una particolare attenzione alle città – e in esse specialmente, ad esempio, alle università, quindi ai giovani. Vogliamo accompagnarli e sostenerli negli anni in cui si preparano ad assumersi responsabilità nella socialità umana. In questa prima fase di studio verso nuove fondazioni, non abbiamo ancora identificato quale sarebbero i posti fattibili in questo momento; spetterà al prossimo consiglio prendere una decisione dopo questa fase di ricerca ed esplorazione.
In questo quadro si inserisce anche l’intenzione del Consiglio Generale uscente di dedicare una nuova attenzione alla pastorale della vocazione. Missione verso l’esterno e verso l’interno, questa è la parola chiave. L’evangelizzazione inizia da noi stessi. Un antico detto ci ricorda che la bocca parla dalla pienezza del cuore (ex abundatia cordis os loquitur). Se vogliamo essere all’altezza del mandato all’annuncio datoci da Cristo, allora la sovrabbondanza del cuore ci deve condurre e dare forma. Lo abbiamo espresso sinteticamente nel motto della nostra missione: open heart and mind!
Ne consegue la maggiore attenzione che dobbiamo dedicare alla comunicazione, al nostro modo di parlare, al dialogo con le altre religioni, in particolare con l’Islam. La comunicazione non è solo un mezzo di interazione, ma ha un valore e un significato in se stessa. Dio stesso è comunicazione tout court, parola rivolta-a: «In principio era la Parola e la Parola era presso Dio, e la Parola era Dio» (Gv 1,1).
La dedizione del rivolgersi ai poveri
Papa Francesco ha coniato l’espressione di una Chiesa che è come «un ospedale da campo». «Non abbiate alcuna paura di sporcarvi» – a questo siamo chiamati dalla sua parola. Proprio in questo medesimo senso p. Dehon ci sprona ad andare dove l’umano è nella distretta del vivere. Per questo abbiamo dedicato ogni annata del nostro Consiglio Generale a una delle sette opere di misericordia: nel 2016 dare ospitalità agli stranieri; nel 2017 dare da mangiare agli affamati; e nel 2018 visitare coloro che sono in carcere. Ci siamo impegnati a rendere disponibili possibilità finanziarie per realizzare tutto questo e a coinvolgere volontari in quello che facciamo in questi campi.
Non posso andare ai poveri con la riserva di una distanza interiore, ma solo se sono pronto a vivere con loro, solo se vedo e accolgo la mia stessa povertà. Riuscire in questo vuol dire percepire e incontrare gli altri da pari a pari. I poveri non sono primariamente l’oggetto del nostro aiuto e della nostra dedizione, ma sono i nostri maestri nell’apprendimento. Essi ci insegnano a diventare più umani.
Abbiamo inteso le correnti globali di migrazione di questi anni come un «segno dei tempi» (GS 4). Quello che ha significato l’industrializzazione per p. Dehon e per la fondazione della nostra Congregazione, sono per noi gli enormi movimenti migratori e quelli dei profughi nel nostro tempo. Ciò che era importante per il nostro Consiglio Generale è che questo potesse confluire in tutto il nostro pensare e fare.
Cosa porto con me?
Dal mio predecessore come Superiore Generale, p. José Ornelas Carvalho, ho ereditato una targhetta in ottone sulla quale sono incise le parole di Michelangelo Buonarroti giunto oramai a età avanzata: «I’m still learning» (sto ancora imparando). Imparare, apprendere, è qualcosa di essenziale nella mia vita, come studente, come insegnante, come prete, e da ultimo come superiore. Sono sicuro che rimarrà così anche da vescovo. Vorrei sottolineare in particolare tre dimensioni:
Dio è al centro. È da questo centro che è Dio che voglio andare verso gli uomini! Non voglio rimanere fermo alla domanda se Dio esiste. È su me stesso che ho fatto esperienza della trasformazione esistenziale di questa domanda: se Dio c’è e credo in lui, questo cambia tutta la mia vita e il mio modo di vivere. Ed è a questo punto che entrano in gioco, pressanti, altre domande: Cosa cambia in me la fede? Come la fede mi fa pensare, sentire, agire, in modo diverso?
Le persone sono al centro, non le istituzioni. Questo perché Dio stesso pone l’uomo al centro, divenendo uomo in Gesù Cristo. Dio mostra agli uomini e alle donne la sua assoluta empatia e dona all’umanità il suo cuore. «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo […]» (Fil 2,5-7).
E da ultimo: il nostro ruolo nella dedizione di Dio per gli uomini nel suo rivolgersi a loro. Come pastore in quale modo posso accompagnare gli altri sui suoi sentieri attraverso la vita? Come posso accompagnare l’altro, così che egli mi racconti di Dio? Come posso aiutare gli uomini e le donne così che possano trovare sostegno e dimora in Dio che è senza pari?
Porto come me a Hildesheim la consapevolezza, maturata nel tempo, che il linguaggio è decisivo per l’annuncio. Del Dio vivente dobbiamo parlare in un modo pieno di vita e vivace. Questo è impossibile con sostantivi e definizioni statiche, ma solo con verbi attivi, con immagini che parlano, con paragoni che sanno esprimere i movimenti del vivere. In questo modo riusciamo ad avere un’intuizione della sensibilità di Dio.
Gesù ci dice: «Voi siete il sale della terra… voi siete la luce del mondo» (Mt 5,13). Non pone condizioni (se voi diventate migliori, allora diverrete…), e non formula un auspicio (voi dovreste essere il sale della terra…). No, Gesù dice: così come siete, voi siete luce e sale. L’indicativo viene prima dell’imperativo, la parola che conforta prima di quella che esige, la promessa prima della comunicazione! E poi: la presenza viene prima della rappresentazione e della rappresentanza. La prossimità è benefica, può salvare e prendersi cura, non c’è nulla che possa prendere il suo posto. La presenza è il vertice.
Non da ultimo prendo con me il tesoro della contemplazione. Noi siamo una congregazione di vita attiva, e io anche come vescovo rimarrò attivo, lo dovrò essere. Ma è cosa buona, per noi stessi come per altri e la comunità ecclesiale, coltivare la grande tradizione degli ordini contemplativi, dare spazio al silenzio. Per noi Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù l’adorazione eucaristica è un momento fondamentale, se vogliamo sostare senza parole davanti a colui che è il sempre più grande. L’adorazione contemplativa è l’unico antidoto contro l’adorazione dell’io. Questo pezzettino di pane dell’eucaristia è l’antidoto contro l’adorazione dell’io che si gonfia solo di se stesso. Colui che si gonfia si eleva sopra gli altri e perde il contatto con le cose della vita. Costui si ritira dai giorni comuni dell’umano. In altre parole: la contemplazione eucaristica mi riconduce al terreno della vita quotidiana. L’adorazione ci radica nei giorni terreni di tutti.
Nel mio ufficio a Roma, che adesso lascio, guardo a un’immagine di Caravaggio: l’incontro fra Gesù e Tommaso. Il discepolo critico e dubbioso pone le sue dita nella ferita aperta del Risorto. Tommaso spinge il peritoneo così in altro come se volesse alzare un velo per gettare lo sguardo in un’altra realtà. Da tre anni questa copia del dipinto che si trova nel Museo di Potsdam mi ha accompagnato giorno per giorno. Il cristianesimo non si è forse sempre di nuovo opposto a quel mondo in cui la realtà veniva subordinata all’idea, la corporeità con tutta la sua fragilità all’ideale? Anche se lascerò questa immagine di Caravaggio appesa qui a Roma, essa mi accompagnerà a Hildesheim perché si è profondamente inscritta dentro di me.
Con gratitudine
Mi mancano le parole per esprimere in maniera adeguata quanto io sia grato per quasi quarant’anni di vita nella Congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù, nella famiglia dehoniana, che per me sono state una scuola di vita. Rimane la scuola che posso comunque frequentare anche se adesso mi sposto nella diocesi di Hildesheim.
Grazie ai confratelli del Consiglio e della Curia generale per la stupenda collaborazione in questi tre anni. Mi ha arricchito molto anche personalmente.
Grazie al Collegio Internazionale di Roma per la grande comunità fatta da più di 60 confratelli provenienti da 20 paesi diversi e da quattro continenti.
Grazie a tutti i confratelli nel mondo per una cooperazione molto fraterna e creativa nel vivere il carisma di p. Dehon e farlo così fiorire ulteriormente.
Grazie alla grande famiglia dehoniana, agli amici e ai gruppi che vivono con noi e condividono il carisma del nostro fondatore.
Grazie ai molti collaboratori e collaboratrici in tutto il mondo, con i quali portiamo avanti spalla a spalla dei progetti e camminiamo insieme nella vita.
Grazie agli innumerevoli amici, sostenitori, benefattori, che ci supportano e accompagnano con le loro competenze, la preghiera, e il sostegno finanziario.
A nome di tutti voglio esprimere un ringraziamento particolare a tutto il consiglio generale che mi ha accompagnato in questo servizio di discernimento e di governo.
Fa bene vedere come sia vitale in queste settimane la nostra Congregazione, con quali capacità il Consiglio Generale stia preparando il prossimo Capitolo Generale, con quale fiducia in Dio e affidamento i confratelli guardano avanti, al tempo che si apre davanti a loro. E fa bene vedere come voi vivete il sint unum in un profondo spirito di comunità.
Sono pienamente persuaso del fatto che noi tutti siamo guidati e portati.
Ho bisogno della bellezza della parola biblica.
Credo fermamente alla forza della preghiera.
È così che vi saluto tutti con affetto, libero nel cuore e unito nella preghiera.
Nel giorno di Pentecoste,
Roma, 20 maggio 2018