Il 25 gennaio scorso, la commissione per la fede della Conferenza episcopale tedesca ha reso pubblico un comunicato in cui spiega perché i vescovi non ritengono opportuno cambiare la sesta domanda del “Padre nostro”: “Non ci indurre in tentazione”. Qui di seguito il testo in una nostra traduzione.
Recentemente è sorta una discussione sulla domanda del Padre nostro “Und führe uns nicht in Versuchung” (“Non ci indurre in tentazione”) che ha avuto una considerevole eco anche nell’opinione pubblica. La discussione riguarda l’appropriata traduzione e la giusta comprensione di questa domanda. In questo dibattito si vede chiaramente che il Padre nostro impegna e provoca molte persone. Le domande del Padre nostro costituiscono ben più di un fatto storico culturale della tradizione, esse provocano e scuotono. È un buon segno che si parli pubblicamente della fede e del problema che riguarda Dio.
Il problema della formulazione
A suscitare la discussione è stata la decisione dei vescovi francesi di cambiare la formulazione di questa domanda del Padre nostro. La formulazione finora in uso in francese (“Ne nous soumets pas à la tentation”) corrispondeva press’a poco, se tradotta in tedesco, a “Und unterwirf uns nicht der Versuchung” (“Non sottoporci alla tentazione”) e si distingueva perciò da quella in uso in Germania e, analogamente, da quella in italiano, inglese e polacco “Und führe uns nicht in Versuchung” (Non indurci in tentazione). Questa formulazione si attiene in senso stretto al testo greco di Matteo (6,13) e a quello del Vangelo di Luca (11,4) (“καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν” e concorda anche con la formulazione latina della Vulgata (et ne nos inducas in tentationem).
Il nuovo testo francese (“ne nous laisse pas entrer en tentation” – non lasciarci entrare in tentazione) – corrisponde invece a quello usato nella formulazione in spagnolo e in portoghese nel senso di “non lasciarci cadere nella tentazione”. Si tratta di una libera parafrasi del testo greco.
Gesù non avrà insegnato ai suoi discepoli il Padre nostro in greco ma in aramaico (o in ebraico), ma questa versione non ci è stata conservata. Si può ritradurre il testo greco in aramaico ed ebraico. Ma in questo modo non si ricostruisce la versione di Gesù.
In aramaico e in ebraico, entrambe le varianti sarebbero possibili; l’ebraismo antico tuttavia conosce anche locuzioni nelle preghiere ebraiche che corrispondono esattamente alla formulazione greca della domanda sulla tentazione (b Ber 60).
Papa Francesco in un’intervista ha accennato al fatto che la traduzione letterale può essere per molti fonte di malinteso nel senso che Dio stesso vorrebbe il male e che la versione più libera, come quella scelta ora dai vescovi francesi, da questo punto di vista favorisce meglio la comprensione. Tenendo presente questo presupposto, si pone il problema se anche la traduzione tedesca debba essere cambiata.
Ad una più approfondita considerazione risulta che esistono ragioni molto importanti in senso contrario, a prescindere dal fatto che abbiano un maggior peso le ragioni filologiche, esegetiche, liturgiche e, non da ultimo, quelle ecumeniche. In particolare, l’omogeneità trans-confessionale e trans-nazionale del testo nell’insieme del mondo germanico non è l’argomento più insignificante.
Ma è importante prendere sul serio l’osservazione critica di papa Francesco e considerare positivamente l’ampio dibattito che ne è derivato. È importante cogliere l’occasione per spiegare in maniera più approfondita il significato della domanda del Padre nostro in relazione con l’immagine cristiana di Dio e la comprensione cristiana del rapporto tra l’uomo e Dio.
Il significato della domanda
Cosa fanno i cristiani quando pregano il Padre nostro? Inserendosi nella tradizione dei Padri della Chiesa, san Tomaso d’Aquino scrive: «Non dobbiamo presentare le nostre richieste a Dio per i nostri bisogni o desideri, ma prendere coscienza che noi in queste cose abbiamo bisogno di invocare il suo aiuto» (STh, II-II 83,2 e 1). Nella preghiera di domanda non si tratta di indurre Dio a fare qualcosa che non vuole, ma di fare nostra la sua preghiera nel Getsemani: “…sia fatta la tua volontà” (cf. Mt 26,42). Non si tratta nemmeno di chiedere qualcosa a Dio come a un nostro simile il quale non sa se e come potrà aiutarci. “Il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate” (Mt 6,8).
Proprio per questo la preghiera di domanda è necessaria. Il Padre nostro incoraggia a pregare e a chiedere (cf. Lc 11,5-13). Questa preghiera dona ai credenti le parole con cui portare davanti Dio le loro richieste più importanti – per se stessi e per tutti coloro con cui pregano e per i quali pregano. Nella preghiera di domanda fatta con fede, le persone non intendono soddisfare il loro tornaconto. Riconoscono piuttosto di dipendere da Dio e di confidare in lui. Si affidano alla sua guida. Le persone glorificano Dio per il fatto che, per essi e per tutti, la cosa migliore è che il suo nome sia santificato, che il suo Regno venga e che sia fatta la sua volontà. – ed esse sono coinvolte in questa santificazione, in questa venuta e in questo compimento.
Pregare perciò è anzitutto ascoltare la parola di Dio. La domanda è un grido nel bisogno, una ricerca di consiglio – e una risposta alla promessa del suo aiuto efficace. Dio stesso offre spazio a questa richiesta. Egli non rimane indifferente, ma esaudisce le domande secondo il suo piano salvifico che rimane un mistero per gli uomini. Come la lode, il ringraziamento e il lamento, anche la domanda rende vivo quel dialogo che Dio intrattiene con gli uomini.
Il Padre nostro è una scuola di preghiera: “Non sprecare parole come i pagani” (Mt 6,7), ma parlare nella libertà dei figli di Dio, come Gesù ha insegnato.
La libertà della preghiera
Più volte Tommaso d’Aquino cita secondo la Vulgata – la traduzione latina – un versetto del Siracide: “Da principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere” (Sir 15,134), (Deus ab initio constituit hominem et reliquit illum in manu consilii sui). Egli collega ciò con l’indicazione “nella libertà di decisione” (per es. STh I 83, I sc). L’uomo deve perciò decidersi liberamente di rispondere al richiamo di Dio e, con libera scelta, affidarsi alla sua guida. Il Padre nostro conferisce a questa libertà una voce – secondo Paolo anche in nome di coloro che non possono pregare (cf. Rm 8,14-27). La libertà cresce nell’obbedienza a Dio e nel servizio al prossimo.
Il Padre nostro è una preghiera di domanda che non serve solo per se stessi, ma anche per il bene e la salvezza degli altri. Nei Vangeli è collegata con il duplice comandamento dell’amore a Dio e al prossimo, compresa la parabola del samaritano (cf. Lc 10,25-37) e con la beatitudine dei poveri (cf. Mt 5,3-12), l’amore ai nemici (cf. Mt 5,38-48) e la pratica della giustizia (cf. Mt 5,17-20, 6,1-18).
Nella comunità di coloro che recitano il Padre nostro – in prima persona plurale – è espressa tutta la vita. Dopo le richieste attraverso il “tu” che riguardano il nome e il Regno di Dio e, in Matteo, anche la sua volontà, ci sono le domande con il “noi” che esprimono i bisogni, le necessità e le speranze del tutto elementari: il pane, di cui hanno bisogno gli uomini, la colpa affinché venga loro perdonata e la tentazione che temono perché conoscono la propria debolezza; in Matteo, alla fine, la liberazione dal male.
Il pericolo della tentazione
La domanda: “Non ci indurre in tentazione” attira l’attenzione particolare su di sé. È l’unica domanda del Padre nostro formulata al negativo; in Luca conclude la preghiera, in Matteo viene trasformata in senso radicalmente positivo: “ma liberaci dal male”.
Solo perché gli uomini sono liberi, possono credere; perché sono liberi, possono anche cadere nella tentazione. Questa tensione è espressa nel Padre nostro. Chi lo prega riconosce: “io sono soggetto alla seduzione, sono tentato ed esposto alla tentazione; ma chiunque recita la preghiera con fede confida, nello stesso tempo, nell’ascolto misericordioso di Dio: devo affidarmi alla guida di Dio: “non indurmi in tentazione”.
Questa convinzione è contenuta nella lettera di Giacomo: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno» (Gc 1,13). La lettera di Giacomo vuole impedire che coloro che si espongono alla tentazione abbiano a incolpare Dio. Esprime la fede profondamente radicata nella Bibbia che Dio non fa cadere nessuno; poiché ascolta la domanda: “non ci indurre in tentazione”.
La Bibbia narra alcuni episodi impressionanti di dure prove della fede a cui Dio sottopone gli uomini, affinché essi – con il suo aiuto – le possano superare come Abramo (cf. Gen 22) e Giobbe. Ma c’è spesso anche il serio pericolo di non riuscire a vincerle. Proprio per questo c’è la preghiera di domanda. Essa affida a Dio il desiderio del cuore di non essere tentati al di sopra delle proprie forze.
La tentazione di cui parla il Padre nostro è di una serietà mortale: è la tentazione di separarsi da Dio e la seduzione di servire il male. Questa tentazione e questa seduzione rappresentano una forza enorme a cui gli uomini sono esposti e a cui essi stessi si espongono. In teoria, sarebbe pensabile che Dio, nella sua santa ira, faccia assaporare fino in fondo agli uomini ciò di cui essi stessi sono colpevoli. Ma il Vangelo mette in rilievo la giustizia di Dio come misericordia. La fede in questo Vangelo è condensata nel Padre nostro.
Il fondamento della fiducia
La Bibbia riferisce di Gesù stesso che fu messo in tentazione: egli si recò nella solitudine del deserto; condotto dallo Spirito di Dio, si è liberamente esposto alla tentazione, uscendone vittorioso (Mc 1,12 ss.; cf. Mt 4,1-11; Lc 4,1-13. 22,28).
La tentazione nel deserto rappresenta l’intero servizio salvifico di Gesù, il quale ha offerto la sua vita per redimere gli uomini dal male. Essendo stato egli stesso messo alla prova, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova: può avere compassione di coloro che sono tentati (cf. Eb 2,18; 4,15 ss.). Al Getsemani ha pregato che passasse da lui il calice della sofferenza, ma più ancora che fosse fatta la volontà di Dio (cf. Mc 14,32-42). In questo luogo esortò i suoi discepoli: “Vegliate e pregate per non cadere in tentazione” (Mt 26,41). Il Padre nostro è la preghiera – compresa la sesta domanda – che essi devono recitare a questo scopo.
La domanda: “Non ci indurre in tentazione” non parla della paura di venire meno davanti a Dio, quanto piuttosto di essere sostenuti dalla sua onnipotenza ed essere salvati.
La domanda non parla nemmeno del sospetto che Dio possa volere che un uomo venga meno, ma della fede nella sua giustizia e misericordia.
La domanda parla tuttavia anche di esperienze limite in cui sembra non ci sia più alcuna risposta da dare al problema di Dio.
Chi recita con questa fede la preghiera con le parole tramandate da Gesù dichiara espressamente di non voler trarre in inganno Dio e nemmeno di voler preparare l’inferno agli altri, ma di santificare il nome di Dio, di condividere il suo pane, di trasmettere agli altri il perdono ricevuto e di pregare per la salvezza di tutta la creazione. La domanda stessa possiede, secondo la promessa di Gesù, la capacità di essere esaudita.
Il fatto che Dio possa preservare gli uomini dalla tentazione e non consegnarli alle loro false decisioni fa parte del significato della domanda del Padre nostro, ma essa è fatta anche per rispondere all’esperienza indecifrabile che Dio metta alla prova una persona oltre le sue forze.
Il Padre nostro non risponde al problema della teodicea: perché il dolore, il male e la tentazione? perché Dio permette tutto ciò? Ma apre lo spazio alla preghiera, in cui Dio può essere invocato: “difendimi per la tua giustizia” (Sal 31,2).
La domanda “non ci indurre in tentazione” non ha lo scopo di convincere Dio affinché si decida a non indurre l’orante in tentazione. Piuttosto unisce insieme il riconoscimento della propria debolezza, la fiducia nella guida di Dio e la ferma certezza che la sua guida non ci porta verso l’abisso.
Tutto molto bello. Resta il fatto che in italiano la traduzione usuale “induce” a pensare a Dio come soggetto della induzione alla tentazione. Il tentativo di ricercare una possibile retroversione nella lingua originale è positiva. Gesù non ha insegnato il PN in greco. Si pensa a un imperativo hiphil (cioè fattitivo, causativo) negativo: “Fa’ sì che non…” Dio non tenta al male ma può permettere le “prove”. E PEIRASMOS purtroppo significa entrambe le cose… a me sembra che si domandi a Dio una AZIONE POSITIVA CHE IMPEDISCA all’uomo di ENTRARE DENTRO una situazione che lo circonda da ogni parte senza via di uscita. Si chiede di non esservi abbandonati dentro. MI MERAVIGLIA che si menzioni il fatto che la domanda è fatta anche per rispondere all’esperienza indecifrabile che Dio metta alla prova una persona oltre le sue forze”. QUESTO CONTRADDICE 1Cor 10,13, che non viene neppure citato!!!