Confessiamoci tutta la verità: parlare oggi di vecchiaia non appare per nulla facile o semplice. A causa dell’irresistibile sentimento di giovanilismo che pervade da ogni parte la nostra società, la vecchiaia sembra sempre più relegata, nell’immaginario collettivo, a qualcosa di indicibile, di profondamente negativo, a un nemico da combattere con ogni mezzo e volontà. Del resto, la presenza invadente della civiltà della tecnica spinge sempre di più l’acceleratore verso il futuro, verso il nuovo, verso l’inedito e sprona a giudicare come obsoleto e come zavorra tutto ciò che passa e non si adatta appunto al nuovo.
Giovinezza e vecchiaia
A causa di queste potenti spinte culturali, la stessa parola “vecchiaia” è stata bandita dall’enciclopedia online Wikipedia e l’aggettivo relativo – “vecchio” – suona spesso sulla bocca di molti come sinonimo di rimbambito, rincitrullito, scimunito. Anzi, non possiamo non riconoscere che forse, al giorno d’oggi, non esiste maggior complimento di chi ci fa notare “quanto siamo giovani” e viceversa non esiste maggiore offesa di chi viceversa ci fa notare il fatto che non siamo più giovani. Per questo non stupisce, alla fine dei conti, il dato che nei paesi occidentali ogni anno vengano spesi oltre 30 miliardi di dollari per l’acquisto di creme anti-age, prodotti utilizzati – quasi sempre senza efficaci risultati – per non perdere la lotta contro il tempo che avanza, per non lasciare travolgere la nostra “giovinezza” dal crudele tempo che passa. Da parte sua, la pubblicità – vera potenza occulta del mercato economico – poi nulla fa per nascondere questa versione negativa della vecchiaia: si potrebbe addirittura affermare che nulla possa essere più venduto, se prima non abbia in qualche misura dimostrato di essere capace di contrastare i segni e l’avvento della vecchiaia.
Ed è così che ci troviamo davanti ad un autentico paradosso: mai come ai nostri giorni è possibile incontrare persone anziane o già molto anziane, grazie appunto all’inedita longevità di massa di cui godiamo, eppure mai come oggi la vecchiaia è stata per così dire “denaturalizzata”: espulsa cioè dal ciclo naturale delle cose, a partire proprio dal lingua che circola tra di noi; senza dimenticare poi che il nostro Paese, dopo il Giappone è il secondo più vecchio del mondo ed ovviamente questo incide pure sull’età media dei consacrati e delle consacrate.
Giovanilismo
Da questo punto di vista, allora, la tentazione maggiore dei vecchi è quella di far proprio fin troppo il giovanilismo che domina la sfera culturale attuale: insomma quella di “vergognarsi” del fatto di avere gli anni che si hanno. Non è certo facile – lo dicevamo prima – sottrarsi alle sirene pubblicitarie che continuamente propongono di investire denaro in creme e farmaci vari che dovrebbero appunto contrastare l’avanzare dei segni del tempo sul proprio corpo; oppure alle tendenza della moda che oggi tende a uniformare quasi tutte le età della vita, in nome di un’espressione della liberà che non raramente sfocia in look decisamente discutibili; oppure ancora alla propria volontà, socialmente sostenuta, di non cedere nulla dei poteri e delle risorse che si sono accumulati nel tempo e col lavoro a chi ora è veramente più giovane e quindi in una posizione migliore per portare avanti ciò cui si è consacrata la propria esistenza. La situazione non è certo facile.
Il tempo che viviamo ci dona certo questa inattesa longevità, ma in fondo ci ha privato anche di quell’“arte dell’invecchiare” tanto utile per la dignità dei vecchi e per la possibile fecondità dei giovani.
L’età del servizio
Sul versante delle virtù dei vecchi, vorrei lasciare la parola a quanto il card. Carlo Maria Martini disse in occasione dell’anno dell’anziano: «In questo incontro nell’anno dell’anziano, voglio, però, ritornare al tema del servizio, che voi potete prestare alla società e alla Chiesa non solo attraverso la vostra attività, ma anche attraverso quel messaggio di vita che deriva dall’accettazione serena degli impedimenti dell’età, dell’abbandono di Dio anche nei momenti dell’inerzia e della malattia, dalla coraggiosa e fiduciosa preparazione alla morte. Nel Vangelo si dice che la suocera di Pietro, ricuperata miracolosamente la guarigione, si è messa a servire Gesù e i suoi discepoli. Tutto ciò che il Signore ci dà di forza e salute impieghiamolo per il servizio dei fratelli. Il libro di Giobbe, invece, ci ha presentato un uomo che non ha rinunciato a servire Dio a causa della malattia. Trasformiamo anche i dolori della vita in un’occasione di servizio e di testimonianza della fede. In tal modo diventeremo annunciatori del Vangelo come Paolo, che nella Lettera ai Corinzi ci ha detto: “Mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole con i deboli; mi sono fatto tutto a tutti”. In un passo molto simile della Lettera ai Filippesi Paolo dice: “So essere povero, so essere ricco. Ho imparato a vivere in qualsiasi condizione: a essere sazio ed ad aver fame, a trovarmi nell’abbondanza e a sopportare la miseria. Posso far fronte a tutte le difficoltà, perché Cristo me ne dà la forza” (Fil 4,11-13)».
Don Armando Matteo, sacerdote della diocesi di Catanzaro-Squillace, è docente di Teologia fondamentale presso la Pontificia università urbaniana. Dal 2005 al 2011 è stato assistente nazionale della Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI).