L’importante è sentirsi giovani dentro. Non c’è espressione più banale e ritornello più insignificante con il quale tentiamo, in maniera goffa, di esorcizzare l’arrivo di una stagione della vita che ci spaventa o di offrire una magra consolazione a chi in essa è già entrato da un pezzo.
Vittime della cultura del giovanilismo e dell’efficienza, in cui si vale qualcosa solo quando si è forti, prestanti e capaci di rendimento, viviamo uno strano paradosso: mentre l’Occidente invecchia a ritmo incalzante, impieghiamo energie di tutti i tipi per tentare a tutti i costi di «restare giovani». Non ci accorgiamo, però, che il sapore della vita consiste forse soprattutto nella capacità di godere dei giorni e di gustare il tempo che scorre, esercitandosi nell’arte della riconciliazione con se stessi, con la realtà, con il cambiamento e con la vita che avanza.
Personalmente – per dirla con una semplice battuta – conosco vecchi sereni e felici nella loro vecchiaia e persone più giovani anestetizzate, inquiete o arrabbiate con la vita. Perché le rughe del cuore fanno più male di quelle impresse sul volto.
Un inno alla vecchiaia
A cantare un inno alla vecchiaia, senza per questo oscurarne la complessità, , è il fondatore della Comunità Monastica di Bose Enzo Bianchi, nel testo La vita e i giorni. Sulla vecchiaia, edito da Il Mulino pochi mesi addietro. Un libro che accarezza l’anima, offre spunti di riflessioni su questa età della vita a volte maltrattata o trascurata, e guida il lettore in un viaggio affascinante alla scoperta dei tesori della vecchiaia e dei vecchi.
L’autore, che non ha bisogno di presentazioni vista l’impronta di spiritualità che offre da decenni alla Chiesa Italiana e i numerosi libri per cui gli siamo debitori, sa tessere pagine in cui la riflessione sulla vita e i vari aspetti della vecchiaia si intrecciano con la propria autobiografia, cioè con la storia di un monaco che ha attraversato la valle non facile dell’esistenza ed è approdato alla maturità umana di chi ha vissuto pienamente i suoi giorni. D’altra parte, come scrive nelle prime pagine del testo, «della vecchiaia può parlare solo chi ne sa qualcosa, chi la attraversa» (p. 12).
Fiducia nella paura
Il filo rosso per una vita riuscita e per vivere con una certa serenità anche l’ultima tappa della vita è certamente la fiducia. Parola che racchiude il segreto di una sana maturazione e che apre il libro: fiducia che la vita, l’unica che abbiamo da vivere, possa essere buona, bella e felice.
È questa fiducia che ha accompagnato l’infanzia del monaco di Bose e che può rafforzare l’esperienza del vivere di ciascun uomo, fermo restando che la «vita che viviamo dipende anche, non solo ma anche, dalle nostre consapevolezze, dalle nostre scelte, dalla qualità delle convivenze che cerchiamo di edificare insieme agli altri, mai senza gli altri, giorno dopo giorno» (p. 10).
Dipende cioè anche da noi, che la vita sia buona, cioè segnata dalla ricerca del bene e dell’amore; che sia bella, di quella bellezza che si riceve e si trasmette anzitutto dalle relazioni con gli altri e con la natura; che sia felice, cioè sia un viaggio alla ricerca del senso e della speranza, anche in mezzo alle contraddizioni e alle fatiche.
Certo, esistono anche paure legate alla vecchiaia e il libro le affronta senza negarle. Essere improduttivi, diventare irrilevanti o addirittura emarginati, l’essere sorpresi da una qualche malattia invalidante, che toglie l’autosufficienza e ci mette in mani altrui; c’è poi, soprattutto nelle città, la paura dell’abbandono e della solitudine e, infine, la paura di un esodo verso la morte, nella sofferenza o nella malattia mentale.
Le paure, come in ogni situazione o passaggio della vita, tendono a farci rinchiudere, spingendoci a cercare una protezione; così, la nostra società occidentale cerca di esorcizzare la vecchiaia, addirittura di rimuoverla, perseguendo l’ideale di una illusoria eterna gioventù, «perché il modello è l’essere giovani, mentre non è consentito diventare maturi o anziani» (p. 21).
Prepararsi al passaggio
Eppure, la vecchiaia è un passaggio obbligato, che arriva con segni inequivocabili – dai capelli grigi all’udito che si indebolisce e ci relega quasi di colpo nella difficile situazione dell’essere tagliati fuori dalla comunicazione – che bisogna accogliere con una certa serenità, senza rassegnazione, ma anche senza voler a tutti i costi sfidare se stessi e intestardirsi nel non ascoltare il proprio corpo.
Ci viene in aiuto la Scrittura, di cui Bianchi è grande conoscitore, e che ci presenta, fra le altre cose, la preghiera del salmista sulla vita che, come l’erba, al mattino fiorisce e alla sera secca: «È necessario essere consapevoli e assumere la responsabilità dell’unica vita che ci è data. Questo desiderio si fa invocazione: Insegnaci, Signore, a contare i nostri giorni e giungeremo al cuore della sapienza» (p. 49).
Ciò significa sostanzialmente prepararsi. È qui che il testo del fondatore di Bose si esprime in tutta la sua bellezza, passando attraverso la Scrittura e invitando ad abbracciare una vera e propria visione dell’intera esistenza: bisogna «prendere coscienza durante tutta la vita, attraverso modalità e acquisizioni diverse, del proprio limite” (p. 57), nella convinzione che «accettare il limite è un’arte che va imparata fin dalla nascita, ma che va praticata con più consapevolezza e assiduità nell’età matura, proprio per prepararsi a un mutamento, a una nuova tappa» (p. 58). Non solo. Tale preparazione avviene «attraverso quello che si vive: scelte, atteggiamenti stili… il domani, d’altronde, è il frutto del nostro oggi, e il rischio di raccogliere ciò che si è seminato è reale» (p. 59).
Di questa preparazione, avverte l’autore, fa parte anche la non facile arte di “lasciare la presa”, di quel saper prendere le distanze e «dell’accettare di non poter più tenere in mano tutte le corde» (p. 69). Ciascuno di noi – è la triste verità che Bianchi ci ricorda – accampa sempre mille motivi per non lasciare mai il proprio posto e le proprie funzioni, mentre occorre la libertà interiore di saper discernere, a un certo punto della vita, quali sono le cose essenziali e vitali e quali, invece, posso e devo lasciare.
Benedire la vita, andando incontro a Dio
Il testo scorre leggero, nonostante la serietà e profondità delle riflessioni. Merito anche dell’aver affrontato la lettura sulla vecchiaia non solo attraverso aspetti spirituali e biblici, ma anche citando, con una prosa poetica e a tratti autobiografica, elementi connaturali alla semplice bellezza del vivere umano: la natura, la cucina, la sessualità, ma anche quelle attitudini che conferiscono spessore all’anima come leggere, scrivere, ascoltare e vedere.
Enzo Bianchi scrive pagine che trasudano di un’umanità luminosa e bella, dalle quali emerge il ritratto di un monaco che, negli anni, ha predisposto il cuore all’ascolto di Dio ma, al contempo, ha saputo porgere l’orecchio ai volti che ha incontrato, ai racconti dei vecchi della sua terra, alla brezza leggera dei monti, al sole che anche oggi riscalda il suo camminare e il suo pregare.
Forse è per questo che il libro si chiude trasmettendo una sensazione di serenità e affidando la paura dell’invecchiare alla gioiosa speranza che la vecchiaia è solo il tempo dei preparativi pasquali, fino all’incontro con Dio. Tempo di grazia, passaggio di vita, spazio in cui imparare in modo più completo a benedire la vita e a pronunciare il proprio “amen” ai giorni che restano.
Grazie per la sua bella testimonianza, davvero intensa.
Grazie della condivisione di questa recensione. Grazie perché ho da tempo i capelli bianchi e sono stata segnata, negli ultimi anni, dalla malattia. Ma davvero ciò che ci dovrebbe guidare è la speranza, non tanto di una guarigione fisica, ma della guarigione dell’anima perché è proprio quando siamo deboli, bisognosi di aiuto, che la vita ci appare in tutta la sua tragica bellezza. Ed è accettando di essere deboli che giorno per giorno si vive nel presente, con lo sguardo al futuro e con il cuore nella memoria delle cose belle, perché “ne sono nate di nuove”. E da tempo il salmo 89, che io conoscevo così: ” Insegnaci, Signore, a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” ( al cuore della Sapienza è per anime elette), è la mia meditazione di ogni giorno. Nella certezza che ogni giorno apro gli occhi alla vita perché sono utile al Signore finché avrà bisogno di me quaggiù. Anna Maria Palma