La Chiesa, davanti allo scandalo degli abusi, è chiamata a vivere il tragitto che dalla negazione porta alla riparazione (Francisco de Zurbaràn, Agnus Dei, 1635-1640, Museo del Prado, Madrid).
Un quadro
Il quadro è di dimensioni contenute, solo 37 x 62 cm, ma l’impatto visivo è tale da non tollerare occhiate frettolose o indifferenti. L’intera superficie del dipinto è occupata dalla figura innaturalmente inarcata di un agnello le cui zampe, strettamente legate da un doppio lacciolo, si protendono in primo piano; il morbido biancore del manto dell’animale si staglia sull’oscurità surreale dello sfondo, sospesa ad un vibrante contrasto fra il cromatismo nero della parete priva di profondità e il grigio della tavola su cui l’agnello è adagiato. La costruzione spaziale potrebbe farci pensare ad una natura morta, ma quell’agnello immobile sul tavolo non è un oggetto inanimato o un essere privo di vita – cacciagione sanguinolenta tra frutti o cespi di verdura. Quell’agnello è ancora vivo. Lo dicono gli occhi, aperti ma reclinati, quasi a fuggire sguardi avidi e indiscreti, e pieni di rassegnazione, come sapessero che da nessuna mano umana può arrivare la salvezza.
Da quegli occhi semichiusi passa tutto il dolore del mondo: l’innocenza patisce, silenziosa, la violenza del gesto rapace che costringe al silenzio impotente. Lo sguardo che si posa sul quadro lo sente tutto, questo dolore, e non può non esserne toccato.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Dal dipinto, opera di Francisco de Zurbaràn, uno dei grandi pittori del Siglo de Oro spagnolo, si sprigiona una dolorante carica emotiva. Davanti al mistero della sofferenza dell’innocente, l’enfasi barocca si spoglia d’ogni eccesso, percorrendo le vie di un’essenzialità scabra e per questo ancor più sconvolgente: non ci sono aureole o altri suggerimenti iconografici che ci permettano di decifrare con immediatezza il valore simbolico del soggetto in chiave teologica cristiana, eppure, anche non conoscessimo il titolo del quadro, in quell’agnello immobilizzato e silente non possiamo non riconoscere l’Agnus Dei qui tollit peccata mundi.
Victimæ paschali laudes
immolent Christiani.
Agnus redemit oves:
Christus innocens Patri
reconciliavit peccatores.
Lo scandalo della croce, cuore del mistero pasquale, sovverte ogni paradigma trionfalistico e piega il cammino della fede a farsi carico, nel nome dell’Agnello vittima innocente, di ogni vittima della storia.
Un libro
Ho iniziato a leggere Agnus Dei: gli abusi sessuali del clero in Italia[1] alla fine di novembre, dopo la pubblicazione del primo rapporto della CEI sulla rete territoriale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, e ne ho terminato la lettura qualche giorno prima che uscissero le notizie relative al caso Rupnik; in questi giorni, mentre scrivo, diverse testate nazionali vanno dedicando ampi spazi alla questione della pedofilia e degli abusi nella Chiesa italiana e in Vaticano.
Il libro-inchiesta di Lucetta Scaraffia, Anna Foa e Franca Giansoldati si presenta con una copertina completamente nera su cui spicca l’immagine dell’Agnus Dei di Francisco de Zurbaràn. Il messaggio è chiaro e inequivocabile: nessun discorso sugli abusi, per poter essere considerato credibile, può prescindere dalle vittime. Con indignazione e sobrietà, senza mai virare verso toni scandalistici o pruriginosi, le autrici presentano sette vicende di ordinario squallore clericale. La loro ricostruzione prende le mosse dal materiale raccolto dall’unico archivio degli abusi disponibile in Italia, il sito dell’associazione Rete L’Abuso, fondata nel 2010 da Francesco Zanardi, vittima di un prete pedofilo; i casi presentati sono tutti casi in cui la colpevolezza dell’abusatore è stata confermata attraverso un giudizio di condanna definitivo.
Nell’introduzione a firma di Lucetta Scaraffia, intitolata A confronto con il male, l’autrice traccia un breve resoconto della storia delle indagini sugli abusi sessuali a partire dalle prime segnalazioni del domenicano statunitense Thomas Doyle, a metà degli anni Ottanta del Novecento; il rapporto Doyle fu fortemente osteggiato dalle gerarchie e dovettero trascorrere quasi vent’anni prima che, nel 2002, l’indagine giornalistica del Boston Globe, da cui il film Il caso Spotlight, Oscar 2016, riuscisse ad impedire che gli abusi compiuti nella diocesi di Boston rimanessero insabbiati. Gli abusi emergono solo quando sono i media a portarli allo scoperto, costringendo le gerarchie a fare i conti con la visibilità dello scandalo, sottolinea Scaraffia. Osservazione che trova amara conferma anche in ciò che sta accadendo in Italia proprio in questi giorni[2].
Un senso profondo, quasi intollerabile, di disagio. Si vorrebbero chiudere le pagine del libro, o non posare gli occhi sui titoli dei giornali, per non sentirsi sommergere da un mare di sporcizia. Ma lo scandalo degli abusi non è un dettaglio collaterale o un’inezia ininfluente, per quanto fastidiosa, all’interno della vita della Chiesa; piuttosto, è uno dei detonatori della crisi irreversibile che sta sgretolando l’istituzione. Non si può far finta di niente, o limitarsi a un’occhiata frettolosa e imbarazzata: solo facendo i conti con questa tristissima vicenda potremo generare percorsi trasformativi capaci di dare alla crisi la forma del passaggio, anziché quella della caduta inesorabile e definitiva.
Il potere sacralizzato
Il legame che, nella Chiesa, si è stabilito fra potere e sacro affonda le sue radici nella storia imperiale romana. L’imperatore Ottaviano Augusto suggellò la sua ascesa al potere assoluto assumendo, nel 12 a.C., la carica di Pontifex Maximus, la massima carica sacerdotale: in questo modo il supremo potere politico e la suprema autorità religiosa venivano a coincidere nella medesima persona. L’eredità imperiale romana, così gravida di conseguenze per la storia della Chiesa, ha pesato non solo in termini di titoli, di rituali e di paramenti, ma ha anche marcato l’apparato identitario clericale con lo stigma di una sacralità incontestabile. È proprio a partire da questa dimensione sacralizzata del potere, da questa attribuzione di potere al sacro, che gli abusi commessi dal clero non possono mai essere considerati soltanto come abusi sessuali; l’abuso sessuale commesso da un ecclesiastico si lega sempre, in qualche modo, ad un uso strumentale del ruolo e alla sacralità del potere che a questo ruolo è collegato.
Il potere sacralizzato gioca sempre in difesa, strutturando tutto un apparato difensivo a garanzia e protezione dei propri privilegi. Scriveva Manzoni a proposito di don Abbondio: «Non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta».
Le pratiche omertose messe in atto per coprire lo scandalo degli abusi fanno parte del sistema di difesa dell’istituzione e dei privilegi garantiti a chi ne entra a far parte. Omertà eretta a sistema: coperture, insabbiamenti, depistaggi, omissioni proteggono l’istituzione dagli scandali, coniugando una segretezza ossessiva e menzognera all’indifferenza verso le vittime o alla loro manipolazione.
L’impianto strategico difensivo trova ulteriori conferme nel fatto che all’apertura di centri di recupero per preti pedofili o problematici non corrispondono altrettanti interventi duraturi, efficaci e concreti a supporto delle vittime, le quali, nella maggior parte dei casi, si trovano a dover affrontare solitudine e silenziamenti da parte della Chiesa proprio nel momento in cui denunciano l’abuso. Intanto l’abusatore, spostato da una parrocchia all’altra, da una regione all’altra, da un continente all’altro, può contare sulle braccia aperte e misericordiose di madre Chiesa, che gli concede giustificazione e perdono senza che in lui possa germogliare e maturare la benché minima consapevolezza del male commesso [3]. Ma una misericordia senza giustizia, che misericordia è?
La marginalizzazione delle vittime
Anche la marginalizzazione delle vittime fa parte del sistema autodifensivo dell’istituzione ecclesiastica. Questo è vero soprattutto quando vittime degli abusi sono le religiose. Il documentario francese Religiose abusate, l’altro scandalo della Chiesa [4], uscito nel 2017 dopo un lavoro di ricerca durato due anni, mette in luce le responsabilità del Vaticano nella protezione e copertura dei preti abusatori e nella pratica sistematica di minimizzazione delle denunce: non solo l’abuso viene fatto passare come trasgressione contro il voto di castità, ma alle religiose viene spesso addebitata la colpa di essere la causa prima del “cedimento al peccato” dell’abusatore.
Per una religiosa, per altro, è molto difficile trovare la forza per spezzare il vincolo di un abuso che si configura spesso anche come abuso di coscienza, dal momento che i sacerdoti abusatori sono spesso padri spirituali o superiori di comunità. Denunciare e far sentire la propria voce non è facile. Il bivio davanti a cui si trovano queste donne è tragicamente doloroso: perché, se mantenere il silenzio vuol dire coprire il male, denunciare un prete significa anche denunciare la Chiesa e, per una donna che ha fatto del cammino religioso la propria scelta di vita, questa prospettiva può arrivare a mettere radicalmente in discussione anche la stessa fede.
Accade molte volte che le vittime riescano a trovare la forza per denunciare gli abusi solo a distanza di anni dagli accadimenti, quando, decaduti i termini, il reato è ormai andato in prescrizione. Eppure, come ricorda Véronique Margron, «Il male fatto dall’aggressore può essere stato commesso una sola volta, o anche cento volte, ma è «passato» (ha una data). Ma il male subito dalle vittime è per tutta la vita» [5]. Il male non cade mai in prescrizione.
Molto spesso l’abuso si presenta in modo insidioso e non si lascia riconoscere, mentre la vittima non ha gli strumenti per decodificare, comprendere e assumere consapevolezza di ciò che le sta accadendo. Vale la pena rileggere la decima novella della terza giornata del Decamerone, dove Boccaccio racconta la storia dell’ingenua Alibech, una giovinetta pagana di quattordici anni che, desiderosa di conoscere e servire il Dio dei cristiani, se ne va da sola nel deserto della Tebaide, dove incontra l’eremita Rustico. Con ironia sottile e, a tratti, dirompente comicità, Boccaccio illustra in modo chiaro i meccanismi attraverso cui l’abuso viene messo in atto, arrivando perfino a trasformare la vittima in complice consenziente. [6]
La vicenda dell’ingenua Alibech si riverbera nelle testimonianze raccolte da suor Mary Lembo, religiosa togolese, psicoterapeuta e formatrice in seminari e istituti religiosi, che ha recentemente pubblicato la sua tesi di laurea, sostenuta alla Gregoriana di Roma nel 2019 [7]. Si tratta di uno studio inedito sulle religiose abusate nella Chiesa d’Africa dove, al dramma dell’abuso, si aggiunge quello degli aborti cui le suore vengono costrette per evitare l’emersione dello scandalo. Lembo mette in luce come l’asimmetria della relazione impedisca di configurare come consenziente il rapporto:
«In questa relazione asimmetrica, che ha in sé una forma di dipendenza (spirituale, fraterna, affettiva, ma talvolta anche finanziaria, giacché può accadere che il prete fornisca un aiuto finanziario ad alcune giovani in formazione), il consenso non è valido». [8]
Mentre la rivoluzione femminista ha permesso all’Occidente di dare forma ad alcuni passaggi irremeabili sul piano costituzionale, legislativo e sociale, nelle Chiese dei paesi in cui è mancata e ancora non si è strutturata un’incisiva riflessione femminista il potere del sacerdote viene ulteriormente amplificato dal suo stesso essere maschio: le donne assumono come dato indiscutibile e come parte dell’ordine naturale delle cose la loro sottomissione al dominio maschile e la fede in Cristo, anziché diventare strumento di liberazione, viene usata per rinforzare le catene che tengono le donne asservite.
Dalla negazione alla riparazione
Grada Kilomba, nel suo libro Memorie della piantagione [9], individua in un percorso collettivo di presa di coscienza che si sviluppa attraverso la sequenza di negazione – colpa – vergogna – riconoscimento – riparazione, la possibilità di superare la violenza e le lacerazioni provocate dal colonialismo e dal razzismo quotidiano. Si tratta non di un percorso morale, ma di un percorso di responsabilizzazione, chiamato a fare i conti con la presa di parola di soggettualità troppo a lungo tacitate e con parole che creano spazi per realtà troppo a lungo negate.
È giunto il momento di uscire dalla prospettiva aristotelica, secondo la quale il giudizio è finalizzato solo a giudicare il tempo passato [10]. È tempo di pensare ad una modalità di giudizio in grado di dare corso ad un paradigma nuovo, capace di gettare ponti verso il futuro, superando il fallace crocevia tra misericordia senza giustizia e punizione esemplare dal sapore di vendetta.
«Un’idea nuova si è fatta timidamente strada. Una parola nuova è stata detta, finalmente, nella riflessione mondiale intorno ai sistemi penali. La parola nuova è “incontro”: incontro tra la vittima e il colpevole e, se possibile, con la comunità. L’idea nuova è di rispondere al reato con l’incontro, libero e volontario, tra chi quel reato lo ha commesso e chi lo ha subìto». [11]
Proprio mentre a livello internazionale nel Diritto Penale si va sempre più accreditando il modello della giustizia riparativa, accolto anche in Italia con la recente riforma Cartabia, che prevede che vittima del reato, autore del reato e comunità, insieme, in modo consensuale, attivo e volontario, ricostruiscano trame di relazioni attraverso il riconoscimento reciproco, anche la Chiesa, davanti allo scandalo degli abusi, è chiamata a vivere il tragitto che dalla negazione porta alla riparazione, mettendosi in ascolto e alla scuola delle vittime e aiutando gli abusatori ad affrontare un doveroso percorso di consapevolezza e responsabilizzazione personale.
[1] Lucetta Scaraffia, Anna Foa, Franca Giansoldati, Agnus Dei: gli abusi sessuali del clero in Italia, Solferino, maggio 2022.
[2] Pedofilia, il caso Spotlight è a Roma: titola così l’articolo di prima pagina di Federica Tourn su Domani del 12/12/2022.
[3] Cf. https://www.fanpage.it/attualita/abusi-sessuali-sui-minori-sordomuti-confessa-uno-dei-preti-sesso-anche-con-bambini/
[4] https://www.arte.tv/it/videos/078749-000-A/abusi-sessuali-sulle-suore-l-altro-scandalo-nella-chiesa/
[5] Véronique Margron, il rapporto sugli abusi in Francia, SettimanaNews 22 febbraio 2022.
[6] Alibech confida a Rustico il proprio desiderio di servire Dio. Rustico le offre ospitalità nella sua cella e le prepara un lettuccio di fronde di palma. Ma la bellezza e la giovinezza di Alibech risultano irresistibili, così Rustico, saggiata con domande varie l’innocenza della giovinetta, «s’avvisò come, sotto spezie di servire a Dio, lei dovesse recare a’ suoi piaceri». Dopo averla catechizzata sulla figura del demonio, il monaco insegna, quindi, ad Alibech a «rimettere il diavolo in inferno» …
[7] Mary Lembo, Religieuses abusées en Afrique, faire la vérité. Une étude inédite, Salvator 2022.
[8] «Dans cette relation asymétrique, qui contient une forme de dépendance (spirituelle, fraternelle, affective, mais même parfois financière, car il arrive aussi que le prêtre apporte une aide financière à certaines jeunes filles en formation), le consentement n’est pas valide». In https://www.lavie.fr/christianisme/eglise/religieuses-abusees-en-afrique-la-relation-asymetrique-avec-le-pretre-maintient-une-forme-de-dependance-84782.php
[9] Grada Kilomba, Memorie della piantagione. Episodi di razzismo quotidiano, Capovolte 2021.
[10] «Per il contendente in giudizio il tempo è passato; infatti, è sempre su fatti compiuti che l’uno accusa e l’altro difende» (Retorica 1358b).
[11] Claudia Mazzucato, Oltre la punizione ecco la giustizia riparativa, Vita e Pensiero 4, 2016.
Riformare la chiesa significa declericalizzare la chiesa ovvero abbattere il sistema di potere basato sul sacro che l’affligge da 1600 anni circa. E per fare ciò occorre prendere coscienza di quanto male ha fatto il clericalismo. Per usare le del papa: “abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita. Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa – molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza – quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente” … I vescovi ed i presbiteri ne sono consapevoli ?
Di fronte allo sgomento per quanto sta accadendo (e ancora temo accadrà) nella Chiesa riguardo agli abusi sessuali e di coscienza, mi conforta leggere la riflessione della prof.ssa Prati. Analisi lucida di una situazione che chiama in causa radicalmente la Chiesa e chi la amministra, come anche chi più semplicemente ne fa parte. Tutti invitati a prendere coscienza della realtà in cui siamo immersi e soprattuto della necessità di capovolgere il paradigma dominante relativo al rapporto giustizia/misericordia e alla subordinazione (sic) tanto teorica quanto pratica delle donne al potere maschile sacralizzato. Saremo in grado come Chiesa di accettare un cambiamento del genere?