I piedi di una bambina affondano incerti nella ghiaia, tastano con timore l’ultimo avamposto della terra ferma; davanti c’è il mare, vasto e senza forma. Il rollio delle onde come un richiamo. È già tutto in questi primi secondi Blue My Mind – Il segreto dei miei anni, prima prova alla regia dell’attrice e regista svizzera Lisa Brühlmann.
Il mare, cifra simbolica di tutto il film, richiama nelle intenzioni della giovane regista la possibilità di un futuro libero da convenzioni sociali imposte dagli adulti, da una società codificata che non ammette possibilità di riforma, irrigidita nella paura di perdere il controllo sui propri giovani. Una società incapace di leggere il proprio passato, incapace di trasmettere un’autentica eredità spirituale.
Nel film – dal 13 giugno nelle sale italiane, ma uscito nel 2017 in Svizzera dove ha vinto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio del cinema svizzero come miglior film – seguiamo le vicende di Mia, adolescente trasferitasi con la famiglia nella periferia di Zurigo, alle prese con il passaggio all’età adulta segnata dalla trasformazione del proprio corpo con l’arrivo del primo ciclo mestruale. Ma la trasformazione di Mia non è solamente naturale perché la fine dell’adolescenza della ragazza dà il via ha un cambiamento più radicale: Mia infatti si sta lentamente trasformando in una sirena.
Blue My Mind rientra nel cinema del cosiddetto body-horror, genere piuttosto inflazionato negli ultimi anni poiché capace meglio di altri di dare corpo alle inquietudini giovanili e adolescenziali e che trova sopratutto nella dialettica donna-mostro uno degli sviluppi più frequenti, basti ricordare pellicole come Denti e Jennifer’s body.[1] La donna-mostro esprime simbolicamente le forze della natura, il mistero della vita e della morte e tale binomio è rintracciabile nell’immaginario di ogni tempo e cultura.
Se la psicanalisi ci ha aiutati a codificare i simboli legati a questo binomio, sui quali abbondano miti e racconti – basti pensare agli studi Freud, Bachelard, Durand, Giumbutas, fino ad arrivare all’emblematico saggio sulla mantide religiosa di Callois[2] – è stato il cinema ha rielaborare su vasta scala questo genere di archetipo nell’immaginario contemporaneo. In questo senso l’immagine della sirena proposta da Brühlmann in Blue My Mind, richiamando il mare, che come la donna è culla della vita, vuole esprimere però contemporaneamente l’ignoto, il buio e la morte. Qualcosa che non può essere afferrato e circoscritto, come la commistioni di conflitti e speranze che si intrecciano nell’adolescenza di una ragazza quindicenne.
Uno dei meriti del film è il fatto di aver saputo restituire, pur nel racconto della mutazione di un corpo, la donna alla sua fisiologia originaria, escludendo ogni tentativo di erotizzazione. Mia e le sue amiche smettono di essere corpi ideali per diventare ragazze/donne nel pieno della loro femminilità segnata certamente dalla fragilità ma al tempo stesso capace di generare la vita con il sopraggiungere della fertilità, come nel caso di Mia.
Nemmeno il film cerca di schiacciare il femminile su ruoli o immagini tipicamente maschili, tentazione che cinema e serie tv hanno invece abbracciato negli ultimi anni mettendo così in atto, invece che una forma di riequilibrio tra i generi, un nuovo tradimento della figura femminile.
Blue My mind inquieta e scuote mostrando in filigrana tutti i fantasmi che si annidano nell’adolescenza: droga, violenza sessuale e psicologica, suicidio – in questo senso la pellicola richiama un altro horror che ha per tema l’adolescenza e il passaggio all’età adulta, l’intelligente It Follows, con il quale Blue My Mind condivide elementi narrativi e estetici. L’elemento mostruoso e fantastico, inoltre, rende paradossalmente la storia di Mia ancora più realistica e per questo disturbante, fotografando simbolicamente l’adolescenza quale età crepuscolare, fatta di infinite possibilità, di molteplici percorsi anche oscuri da cui non sempre si riesce ad uscire per vedere la luce.
In queste vie gli adulti non possono più entrare, ma vi si possono umilmente accostare, accettando con fatica il ruolo di accompagnatori spesso impotenti dei propri figli. Gli adulti sono volutamente poco presenti, i genitori di Mia fanno come da cornice al film: padri e madri, benestanti e distaccati, forse con la voglia di riprendersi quel tempo che i figli hanno in qualche modo rubato loro.
In definitiva Blue My Mind appartiene a un cinema nuovo e fresco che potremmo definire povero, un cinema che siamo sicuri vedremo sempre più spesso nelle sale, capace di rileggere i canoni del genere di cui si serve per parlare alla società in cui viviamo, per mostrarci come potremmo essere migliori di come non siamo già.
[1]Tuttavia i capisaldi del genere trovavano la loro ragion d’essere nel rapporto tra uomo e macchina, come negli imprescindibili Videodrome (1983) e Tetsuo: The iron Man (1989).
[2]R. Callois, Il mito e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 1998.