Quasi un’abitudine: Diego Fares, gesuita argentino del gruppo di Civiltà Cattolica, scrive un testo e il papa lo utilizza subito per farne dono. Era accaduto così con Il profumo del pastore (Àncora 2015), offerto ai membri del Sinodo e ora – l’occasione è stata la messa crismale dell’ultimo giovedì santo – è stata la volta di Dieci cose che papa Francesco propone ai sacerdoti» (Àncora 2018), dove l’autore traccia quasi un decalogo del pensiero di Bergoglio sui preti di oggi. E non c’è da stupirsi in quanto il gesuita sembra rappresentare esattamente la figura e il servizio di un religioso ideale all’interno di quella Chiesa in uscita da lui indicata: a Buenos Aires aveva lavorato per circa vent’anni presso El Hogar de San José, un centro di accoglienza per adulti in situazione di povertà e di disagio e nella Casa de la Bontad, un hospice per malati terminali.
L’autore prende lo spunto dalle “raccomandazioni” che il 2 giugno 2016, nell’Anno dedicato alla vita sacerdotale, papa Francesco aveva rivolto ai preti romani al termine del ritiro: non perdete la preghiera; non perdete il lasciarvi guardare dalla Madonna e il guardarla come Madre; non perdete lo zelo, cercate di fare; non perdete la vicinanza e la disponibilità alla gente; non perdete il senso dell’umorismo.
Forte di una conoscenza personale, che risale al 1975, quando Jorge Mario Bergoglio, allora a capo della provincia argentino-uruguayana, l’aveva accolto nella Compagnia di Gesù e di una vicinanza spirituale che non è mai venuta meno, Fares, con un’attenta ricerca tra discorsi e omelie, azzarda una sorta di allargamento per disegnare la figura di prete che ha in mente il pontefice.
E il risultato sembra aver centrato il bersaglio come si evince dalle brevi parole di ringraziamento che costituiscono un po’ la prefazione: «Sono desideri e suggerimenti, quelli che vengono spontanei dal cuore quando un vescovo parla con i suoi sacerdoti» riconosce papa Francesco. «Ho sempre creduto che sia questa la grande grazia dello Spirito alla Chiesa e ai suoi pastori: uscire con coraggio in strada, nelle periferie, dove tanti fratelli hanno bisogno di provare la gioia del Vangelo, che Dio è Padre misericordioso e che davvero non vuole che gli si perda nemmeno uno dei suoi piccolini».
Ecco le raccomandazioni aggiunte: «porgete la spalla, metteteci il cuore, aiutate le persone a discernere il bene, nella confessione aiutate a illuminare lo spazio della coscienza personale con l’amore infinito di Dio, parlate al cuore della gente».
«Quando porgiamo la spalla alle necessità dei nostri fratelli – spiega il gesuita –, allora sperimentiamo, con stupore e gratitudine, che un Altro porta in spalla noi, e Francesco è una di quelle persone che “ti porgono” sempre la spalla perché ci mettono il cuore». Che tradotto per un prete significa: «Porgere la spalla alla sua gente, alle famiglie, ai giovani, agli anziani, ai più poveri che la società scarta e abbandona ai bordi della strada».
Fares rivela che la “cardiognosia” sia la qualità attribuita a padre Bergoglio da un confratello in un giorno lontano (chi ha dimenticato la “Misericordina”, il “farmaco 50 grani per il cuore” distribuito al termine dell’Angelus del 17 novembre 2013?): anche «l’unzione è una questione di cuore» ha detto da pontefice, indicando che è dal cuore che il prete riconosce nel prossimo il volto di Cristo e parla al cuore di tutti.
«Quando il Signore ci sceglie e ci manda in missione, lo fa dall’intimo del suo cuore» conclude Fares e «niente di ciò che facciamo in quanto sacerdoti può lasciare il cuore. È il cuore del pastore che riconosce l’odore delle pecore e va alla ricerca della pecora smarrita, che si fa prossimo con quanti incontra nella «disponibilità e prontezza di servire tutti, sempre e nel modo migliore», a immagine di Maria che corre a servire la cugina Elisabetta o si prodiga per l’inatteso di Cana. È «la disponibilità del sacerdote fa della Chiesa la Casa dalle porte aperte, rifugio per i peccatori, focolare per quanti vivono per strada, casa di cura per i malati, campeggio per i giovani, aula di catechesi per i piccoli della Prima Comunione…».
Solo se un prete agisce col cuore (un concetto che costituisce il perno di tutto il decalogo), sarà possibile accompagnare le persone al discernimento nella quotidiana ricerca verso scelte di bene: non sarà uno specialista, ma, convinto in cuor suo della necessità di una «morale della situazione», offrirà un contributo oltremodo prezioso.
E, ancora, saprà fare spazio nella confessione per illuminare la coscienza personale o avvicinare la gente, sempre e comunque con quella disponibilità che sgorga da un cuore che riconosce nel prossimo il volto di Cristo e per parlare al cuore di tutti (nelle omelie e negli incontri personali o con il linguaggio dei gesti). Senza mai perdere quello zelo che, in un giorno più o meno lontano, gli ha fatto pronunciare l’adesione al farsi come Cristo.
«Lo zelo apostolico, l’istinto evangelico di uscire di corsa a raccontare la Buona Notizia a tutti – perché siamo stati perdonati, guariti, alimentati, scelti – sta al centro delle raccomandazioni di Francesco», lasciando che il cuore si allarghi in quel «movimento che va dalla contemplazione all’azione».
In una lezione del 2008, Bergoglio declinava una triade: «cuore-occhi (tutto il mondo del desiderio umano); lingua-orecchie (tutto il mondo dell’ortodossia, la parola e il logos umano); mani-piedi (tutto l’universo dell’ortoprassi inteso come agire significativo per cui, tramite l’uomo, cerca di trasformare il mondo)». Ed è significativo, conclude Fares, che Francesco passi spontaneamente dal cuore – lo zelo – alle mani e ai piedi: «cercate di fare…» (ed è ben nota la sua critica a quei teologi che si limitano a questioni di lana caprina…).
Le parole forse più significative che stimolano lo zelo apostolico il gesuita le rintraccia nell’elogio sepolcrale di sant’Ignazio: «Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo, divinum est» (questo è divino: non essere costretto da ciò che è più grande ed essere contenuto in ciò ch’è più piccolo).
Senza dimenticare l’importanza delle qualità umane: lo «sguardo umile», l’«ascolto attento» erano le indicazioni di Aparecida, e ancora, per dirla con la preghiera di san Thomas Moore, il senso dell’umorismo, quell’atteggiamento che «ti solleva, ti fa vedere il provvisorio della vita e prendere le cose con uno spirito di anima redenta» diceva Bergoglio in un’intervista.
Imprescindibile un’intensa vita di preghiera («una preghiera piena di volti e discernimento») con una distinzione: «La preghiera che il papa raccomanda a noi sacerdoti non è la preghiera propria della vita contemplativa, ma quella della vita attiva. La spiritualità sacerdotale si alimenta del ministero, in cui stanno al primo posto l’annuncio del Vangelo e il dono dei sacramenti… È una preghiera che trova nella Parola – specialmente in quella che deve predicare – il suo principale alimento».
Nel capitolo finale, in sintesi, quasi l’identikit di un «buon sacerdote», «un pastore e non un funzionario, mercenario o imprenditore» o – come scriveva ai suoi preti in Argentina nel 1999 – «un pastore aperto e non chiuso»: l’unzione sacramentale conferisce uno «zelo da pescatori» nella prospettiva di «vicinanza» («le storie della nostra gente non sono un notiziario») e «disponibilità».
Consapevoli che «l’unzione riguarda l’Unzione: soltanto l’Unto del Padre può ungere coloro che Egli sceglie, e ci unge non perché profumiamo noi stessi, ma perché usciamo a ungere gli altri».
Diego Fares, Dieci cose che papa Francesco propone ai sacerdoti, Àncora, Milano 2018, pp. 96, € 12,00.