«L’impiegato finge di scrivere seduto alla scrivania dietro il vetro. Finge di non guardare, di non vedere. Ha esposto buste-sacco di molte misure e su ciascuna ha collocato un piccolo bigliettino con il prezzo scritto a matita. Si possono spedire ricordi di qualche peso. L’ufficio postale propone ricariche telefoniche, penne, matite, francobolli. Decine di cartoline attendono il loro turno nell’espositore girevole».
Da Auschwitz si possono spedire cartoline in ricordo della visita al campo di sterminio, racconta Roberto Franchini, giornalista e scrittore, nel suo breve libro che si intitola appunto Cartoline da Auschwitz, pubblicato da Marietti 1820 nella collana digitale iRèfoli con una prefazione di Michele Smargiassi, tra i maggiori esperti italiani di fotografia. Questo libro senza immagini, composto di brevi annotazioni solleva un tema più ampio; un teso, a tratti aspro dibattito mai arrivato a compromessi ha diviso lungamente due fronti inconciliabili, attorno all’interrogativo se sia giusto dare immagini del progetto di sterminio nazista.
Da una parte Claude Lanzmann, il regista del documentario-monumento Shoah, che decretò l’inadeguatezza di qualsiasi rappresentazione visuale che pretenda di rappresentare l’assoluto del male. Dall’altra Georges Didi-Huberman, che sostenne il diritto di immaginare, «nonostante tutto», ciò che per gli aguzzini stessi doveva restare inimmaginabile. Di Cartoline da Auschwitz proponiamo alcuni brani.
Siamo arrivati ad Auschwitz in una mattinata di sole, il cielo terso come un vetro appena lucidato. Abbiamo pensato che quella luce non poteva illuminare quei morti perché la morte richiede la nebbia, la pioggia, la neve, il buio. La morte richiede, se non la sofferenza, almeno un poco di modesto disagio. Vediamo l’acqua ghiacciata sul fondo dei canali di scolo e ci sentiamo in dovere di immedesimarci, per un’ora almeno, con chi patì quel freddo settant’anni fa.
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La guida che parla italiano conduce il gruppo meno numeroso: siamo appena sei persone. Due sono particolarmente giovani e me ne stupisco. Di solito, i ragazzi arrivano in visita organizzata, in gita collettiva. Immagino perché costretti, ma solo in parte, e in parte perché è più sopportabile dividere questa esperienza con chi siede nel banco vicino, fianco a fianco tutto il giorno. La Shoah è una materia scolastica. Dagli interrogatori alle interrogazioni.
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Quando arrivi davanti al cancello di ingresso, e per noi anche di uscita, del campo di Auschwitz, ti domandi come abbia potuto passare tanto dolore umano per un passaggio così piccolo. È questa la cruna dell’ago della quale parla la Bibbia?
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Il campo di Auschwitz era una caserma dell’Esercito Polacco. Solo questa ragione spiega la geometrica regolarità del disporsi dei lunghi edifici rettangolari in mattoni rossi di fornace. In origine non vi erano filo spinato o torrette di guardia. Se non sapessi cosa fosse e cosa divenne non potrei fare a meno di pensare che è un villaggio operaio dell’Ottocento, come ancora se ne trovano nel Regno Unito. Un villaggio fantasma. Si potrebbe ascoltare ancora il passo dei lavoratori che tornano dalla fonderia o dal cotonificio, li si potrebbe vedere dondolare la gamella che conteneva il pranzo del mezzogiorno. Chissà se anche loro pensavano che il lavoro rende liberi.
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Nel campo di Auschwitz furono internate persone che venivano da più di 20 paesi europei, quasi tutti accomunati dall’essere ebrei.
Il Terzo Reich era riuscito a creare una Europa unita in quelle baracche; in quei dormitori si intrecciavano parole che tra loro non avrebbero mai formato un filo logico, una trama visibile e comprensibile. Il popolo eletto, che in fondo europeo non era, si era sparso per tutti i paesi del Vecchio Continente. Era più che un popolo: era una cultura. Una idea, direi. Come quelle socialista e comunista e, prima ancora, anarchica. O come il verbo cristiano, ovviamente. E come le idee liberali che avevano guidato la nascita degli stati-nazione.
Nei dormitori sono nate mostre che ricordano i morti di quei paesi. Una baracca, un paese, una mostra. Un paese di fianco all’altro, ma l’uno separato dall’altro. Come a mostrare, con discutibile orgoglio, che ciascuno può vantare il primato del numero di morti.
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Siamo tutti nati in quel campo. Tutti noi europei. Tutti quelli che vogliono pensare di essere nati in una idea di pace chiamata Europa.
No, non sono i negazionisti quelli che vi andrebbero condotti a viva forza, stipati in carri bestiame, a meditare sulle loro credenze storiche. Piuttosto, sono tutti coloro che inneggiano a patrie divise, a stati ipotrofici, a identità imbalsamate come trofei di caccia inchiodati al muro.
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La guida ci mostra i segni distintivi che i prigionieri dovevano portare come insegne della loro colpa. Ci spiega il significato di quei triangoli colorati: rosso per i prigionieri politici (e quale altro colore mai avrebbero dovuto avere in quei tempi?), verde per i criminali, blu per gli immigranti, viola per i testimoni di Geova, rosa per gli omosessuali, nero per i Rom e i Sinti. Se si era, per esempio, ebreo e comunista, ipotesi deprecabile sempre e comunque, i due triangoli si incrociavano a formare una stella. Una stella per metà rossa e per metà gialla, che questo era il colore della stella di Davide.
Stelle e stellette: quei prigionieri portavano le insegne e i gradi come un esercito in piena regola. Forse i nazisti avevano bisogno di trovarsi di fronte un esercito come il loro per trovare anche l’ultima motivazione di un annientamento annunciato.
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Temo che d’ora in poi ci andrò davvero cauto a distribuire con i miei discorsi l’idea del viaggio come metafora della vita. La metafora non costa alcunché, il viaggio tutt’al più il prezzo di un biglietto. Che per noi, è sempre e comunque un biglietto di andata e ritorno.
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A Birkenau hanno lasciato un carro merci fermo a metà del binario principale. È di un rosso lucidato che sa di nuovo. Un restauro fin troppo efficace. Il vagone è chiuso, come dovevano esserlo tutti quelli che arrivavano carichi di prigionieri stipati per giorni. Erano carri per animali, aggiunge la nostra guida. Non è possibile salire. Noi lo guardiamo da fuori, come i visitatori di un museo delle ferrovie. Del resto, se anche potessimo salire, cosa mai potremmo vedere, o anche solo immaginare? Un vecchio vagone vuoto fermo su un binario morto.
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Franz Engel, Klara e Sara Goldstein, Jacob Greilsamer. Leggo i loro nomi sulle valigie ammonticchiate a centinaia, a migliaia. Le osservo da dietro il vetro e scorro nomi e cognomi, città, vie della vecchia Europa. Li penso tirare fuori le valigie dagli armadi, dalle cantine, dalle soffitte. Perfino da sotto il letto. Penso un intero popolo in movimento, convinto che la prossima destinazione sarà solo un’altra tappa del suo peregrinare. Li vedo riempire quelle valigie con calzoni e camicie, gonne e golfini, le spazzole per i capelli il lucido per le scarpe il pennello per insaponarsi il viso.
La gente del popolo della diaspora alla fine si è ricomposta in un solo luogo. Gli abiti i vestiti le scarpe e tutti quegli oggetti sono qui ad attenderli. Aspettano che tutti i Franz, le Klara, le Sara, gli Jacob vengano a riprenderseli.