Dall’elezione di un papa «dalla fine del mondo», ma forse anche prima, si parla spesso di un baricentro del cristianesimo che si sposterebbe dall’Europa ad altri continenti, vuoi Asia, Africa o America Latina, eppure – spiega Philip Jenkins, storico americano di origini gallesi – non è mai accaduto nella storia che il cristianesimo sia stata una religione esclusivamente “europea”.
Fin dai suoi esordi ha rappresentato piuttosto una religione immediatamente tricontinentale, prima in Asia Minore, poi in espansione in nord Africa e, infine, esportata a Roma.
E, più avanti, si è trattato di una religione non isolata, ma che, per anni, ha convissuto pacificamente con l’islam: nei primi secoli dalla nascita della religione islamica, intellettuali cristiani erano consulenti alla corte del califfo di Baghdad, sedi episcopali esistevano in Yemen, Afghanistan e Arabia, tanto che – per fare un esempio – nel 1050 solo in Asia Minore si contavano 373 sedi vescovili.
«Fino al 1250 – scrive Jenkins – si poteva pensare ad un mondo cristiano che si estendeva, a est, da Costantinopoli a Samarcanda e, a sud, da Alessandria d’Egitto fino all’Equatore».
Cercare di capire cosa sia accaduto lungo i secoli per giungere alla situazione di oggi – persecuzioni e martirio in troppe zone di conflitto, ma anche fuga e rischio scomparsa come si registra in Siria – diventa indispensabile per comprendere il mondo contemporaneo e le ragioni della secolarizzazione.
Il testo – che in lingua originale è stato pubblicato nel 2008 e oggi tradotto da EMI con una premessa di oggi dalla penna dell’autore stesso – diventa un prezioso sussidio per capire quella che chiamiamo, forse un po’ troppo frettolosamente, la «fine del cristianesimo globale» e come nascono e muoiono le fedi, e anche le religioni.
«Prima di stendere un necrologio sulle sorti dei cristiani d’Europa a beneficio dell’islam che starebbe per conquistare il nostro continente come nella Spagna dell’VIII secolo, Jenkins suggeriva un reality check, per esempio, a proposito del tasso di fertilità tra i musulmani o di violenza nei testi sacri», scrive Giancarlo Bosetti nella prefazione. Essere realisti significa informarsi che in Iran o Tunisia la natalità è pressoché identica a quella europea, o leggere nella Bibbia le espressioni sullo sterminio dei nemici.
È una sorta di esercizio antideterministico che potrebbe forse non incontrare il favore di tutti, ma sarà per la sede di lavoro – un ateneo laico texano, dopo aver insegnato alla Penn State University –, sarà per il suo spirito laico di storico (se pure di fede anglicana), il lavoro di Jenkins rappresenta uno strumento che sbriciola letteralmente stereotipi e pregiudizi che troppo spesso vengono riproposti anche dai media, come in certe omelie.
Siamo tutti al corrente che in Arabia Saudita, paese musulmano per eccellenza, almeno il 5% della popolazione (pari a 1,5 milioni) è di fede cristiana? Si tratta di immigrati africani e asiatici addetti ai lavori più umili, come del resto accade negli Emirati Arabi, in Kuwait e Bahrein, al punto che la Chiesa cattolica nel 2011 ha organizzato un nuovo vicariato per servire quel 2,5 milioni di fedeli che vivono in quelle terre (la sede episcopale in Bahrein, dedicata a Nostra Signora d’Arabia, sorge su terreni donati dal re Hamad). E si potrebbe continuare con la cattedrale ortodossa di St Thomas a Dubai …
Meglio informarsi, raccomanda lo storico.
Philip Jenkins, La storia perduta del cristianesimo. Il millennio d’oro della Chiesa in Medio Oriente, Africa e Asia (V-XV sec.). Come è finita una civiltà, EMI, Bologna 2016, pp. 352, € 22,00.