In una lettera del 3 novembre 1689 al padre gesuita Jean Croiset, la mistica francese Margherita Maria Alacoque riferiva di una visione avuta una quindicina di anni prima: «Il divino Cuore mi fu presentato come in un trono di fiamme, più sfolgorante di un sole e trasparente come un cristallo, con la piaga adorabile, circondato da una corona di spine, a significare le trafitture che i nostri peccati gli recavano, e sormontato da una croce».
I racconti di questa e di altre apparizioni furono decisivi per la diffusione di una forma devozionale già presente nella Chiesa cattolica, ma destinata a una crescente popolarità in epoca moderna: questo, passando per l’enciclica di Leone XIII Annum sacrum (con cui, nel 1899, l’intero genere umano fu consacrato «all’augustissimo Cuore di Gesù») e per la fondazione (a Milano, nel 1921) di una Università cattolica «del Sacro Cuore», come recita la sua denominazione completa.
Il problema è che le immagini in particolare quelle di carattere religioso tendono a vivere di vita propria, ibridandosi tra loro e rivestendosi di nuovi significati nel corso del tempo. Proprio in riferimento al caso a cui si accennava, tali metamorfosi sono documentate e indagate da don Giuliano Zanchi, segretario generale della Fondazione Bernareggi, ne Le migrazioni del cuore. Variazioni di un’immagine tra devozione e street art, recentemente pubblicato dalle Edizioni dehoniane di Bologna (qui la scheda del volume).
L’iconografia del Settecento
Nella prima parte del suo libro, Zanchi si sofferma appunto sull’iconografia tradizionale del Sacro Cuore, «canonizzata» nel Settecento dal pittore lucchese Pompeo Girolamo Batoni in un ovale conservato nella chiesa del Gesù, a Roma. Secondo Zanchi, questo Cristo dolcemente remissivo e al tempo stesso esigente, come se rivolgesse al mondo un amorevole rimprovero, corrisponde perfettamente a «un cattolicesimo che guarda in faccia la propria epoca, ribelle e irriconoscente, con lo stesso addolorato sconcerto».
Da un lato, la devozione al Sacro Cuore rappresentò una reazione a una teologia intellettualistica, così concentrata sulla «dottrina» da trascurare la dimensione affettiva della fede. Dall’altro, la raffigurazione del cuore sanguinante di Gesù «divenne un’icona del risentimento credente nei confronti della civiltà laica e secolare che, con i suoi nuovi saperi, stava conquistando il dominio del vecchio mondo spirituale e cristiano, e contro la quale il cattolicesimo tardomoderno sentiva il dovere di combattere con tutte le proprie forze» (ad esempio, la basilica del Sacro Cuore di Montmartre fu eretta per «espiare i crimini» dei Comunardi, che nel 1871 avevano instaurato a Parigi un governo socialista, in un clima di guerra civile).
Sugli abiti in passerella
Giuliano Zanchi prende però in esame anche una singolare tendenza per cui il tema del Sacro Cuore ricorre oggi frequentemente nelle avanguardie artistiche, ma pure nell’alta moda: l’immagine ritorna, ad esempio, stampata, ricamata o in patch argentate che ricordano gli ex voto sugli abiti delle modelle che sfilano per Jean-Paul Gaultier, Christian Lacroix o Dolce & Gabbana.
Alcuni anni fa, l’antropologa Clara Gallini aveva condotto una ricerca sugli usi e gli abusi del simbolo della croce nel «codice modaiolo» dei nostri giorni. Tra le ipotesi da lei formulat, vi era quella di una «traduzione» del tema della passione di Gesù nella concezione odierna dell’eros come «ultimo dio», il solo che meriti di essere adorato fino al completo sacrificio di sé.
Una chiave di lettura forse non troppo diversa viene proposta ne Le migrazioni del cuore. Uno dei tratti tipici del nostro tempo si afferma è una «estetizzazione del quotidiano» per cui qualsiasi oggetto di consumo, dagli elettrodomestici alle cover dei cellulari, porta con sé la promessa-illusione di un appagamento incondizionato («Ogni cosa è illuminata da un’aura estetica che la trasforma non semplicemente nel tramite di una funzione, ma nel “sacramento” di un desiderio»).
Che questa «trasfigurazione» dei prodotti si compia spesso attingendo all’immaginario religioso è testimoniato esemplarmente da una pubblicità realizzata in vista dei mondiali di calcio del 2014: dei famosi calciatori apparivano a petto nudo, reggendo tra le mani un cuore sanguinante e ripetendo lo slogan «Darò il cuore per il mio Paese». Questi calciatori «ostentano un cuore grondante con la stessa perentorietà con cui Gesù protende il suo – commenta Zanchi –, assicurando in entrambi i casi una forma di offerta che si dichiara totale e incondizionata. I creativi della Adidas devono dunque molto alla visione di Margherita Maria Alacoque».
Riprendiamo la recensione firmata da Giulio Brotti al volume di G. Zanchi, Le migrazioni del cuore (EDB, 2017), apparsa su L’Eco di Bergamo il 21 giugno 2017, p. 47.