Ezechiele, un testo impegnativo e una miniera

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Il profeta Ezechiele (Michelangelo, Cappella Sistina)

Con questo commento di Ombretta Pettigiani al libro di Ezechiele si avvia al completamento la fortunata collana Nuova Versione della Bibbia dai Testi Antichi (NVBTA) della editrice San Paolo. La collana prevede un’introduzione generale (qui pp. 9-37, da cui attingiamo per stendere le nostre note), il commento (qui pp. 38-436) e alcune pagine circa la presenza del libro biblico nella liturgia (qui pp. 437-444, redatto da Nicola Mancini). Alle pp. 33-35 è riportata una sintetica bibliografia.

Il commento si dispiega su tre registri. Nella parte superiore, nella pagina pari di sinistra, si trova l’originale ebraico, mentre in quella a destra dispari, la traduzione in italiano approntata personalmente dall’autrice. Nel registro mediano sono collocate le note strettamente filologiche, mentre il commento biblico-teologico è collocato nel registro inferiore che copre entrambe le pagine.

copertina

Ezechiele

La persona, le parole e l’attività del profeta-sacerdote Ezechiele («Dio rende forte» o «Dio indurisce»), che visse in prima persona il dramma dell’esilio babilonese del popolo ebraico (dal 598 a.C. in poi), sono all’origine del libro a lui attribuito.

Egli ricevette la sua vocazione nel 593 a.C. Ezechiele è pure il personaggio del libro che porta il suo nome e che si colloca, stando al racconto, nel VI secolo, nel contesto dell’esilio babilonese.

Con Ezechiele si intende anche l’insieme di autori e redattori a cui il libro nel suo complesso dev’essere attribuito (che sono quindi vissuti in un lasso di tempo ben più ampio) e, infine, con Ezechiele si intende il libro, il prodotto letterario che sta nelle nostre mani.

Secondo la Pettigiani la redazione finale del testo non può essere collocata prima della tarda età persiana, a causa dei numerosi contatti che il libro mantiene con altre correnti letterarie (Deuteronomista, sacerdotale e il Codice di Santità di Lv 17–26). La redazione fu probabilmente opera di coloro che ritornarono dall’esilio di Babilonia, come appare da una certa insistenza a favore del particolare gruppo dei rimpatriati.

L’autrice, esegeta, suora francescana missionaria di Gesù Bambino, addottorata al PIB di Roma e docente di AT presso l’Istituto Teologico di Assisi, ricorda che il libro del profeta Ezechiele, così come gli altri libri profetici, «sono essenzialmente letteratura, frutto del lavoro di collezioni di unità originariamente indipendenti che vengono assemblate, ma anche aggiornate e ampliate, così da essere adatte a un nuovo uditorio con i suoi nuovi interrogativi» (p. 29).

Struttura del testo

La struttura del testo tiene presenti le datazioni presenti in esso, ma resta sempre problematica.

Lo schema proposto da Pettigiani è il seguente:

Prima parte: dalla chiamata del profeta alla caduta di Gerusalemme (Ez 1–33)

Ez 1–3; 4–5; 6–7: visione programmatica, gesti simbolici, oracoli di giudizio e annuncio della fine;

Ez 8–11; 12,1-20; 12,21–23,49: nuova visione della gloria (che abbandona Gerusalemme), gesti simbolici e oracoli riferiti a Giuda (di tonalità prevalentemente negativa);

Ez 24–33: dall’annuncio della caduta di Gerusalemme al suo compimento con al centro gli oracoli contro le nazioni.

Seconda parte: dalla caduta di Gerusalemme al ristabilimento del popolo e del paese (Ez 34–48):

Ez 34–37; 38–39: oracoli sulla restaurazione del popolo e del paese; sconfitta di tutti i nemici e testo riassuntivo di carattere positivo (39,21-29);

Ez 40–48: visione della restaurazione del tempio, del re, del paese, della città e ritorno della gloria nella sua casa.

Una struttura più dettagliata la si può ritrovare nell’indice del volume (pp. 445-446).

La struttura proposta dall’autrice per visualizzare la progressione del libro vede una prima parte scritta (per lo più) immaginando la futura presa di Gerusalemme da parte di Nebukadnezzar, collocando, quindi, ciò che il testo narra tra la chiamata del profeta, già in esilio (593 a.C.) e la seconda deportazione (586 a.C.).

Dopo il c. 33, invece, poiché Gerusalemme è stata conquistata, si dà per scontata la seconda deportazione e il profeta cambia profondamente tono, passando dall’annuncio di sventura alla promessa di salvezza.

La struttura proposta dall’autrice permette di apprezzare il testo di Ezechiele come buona notizia, nonostante l’evidente durezza di molti oracoli. È un vangelo che proclama la fedeltà di Dio al suo popolo proprio quando esso meno lo meriterebbe.

Ezechiele è posto fra i Profeti Maggiori e collocato sempre dopo il libro di Geremia.

Elementi specifici

Gli elementi originali del libro di Ezechiele sono molti: la quantità delle visioni, l’insolita collocazione del profeta in terra d’esilio, i contatti con il mondo babilonese che spesso traspaiono, l’interesse spiccato per il tempio e per questioni di purificazione…

Gli studiosi sono stati colpiti soprattutto da due particolarità del libro.

La prima consiste in un uso pressoché totale della prima persona nella stesura del testo. La voce narrante che espone ciò che vede e che sente e che equivale a ciò che deve dire da parte del Signore è quella dell’«io» del profeta (cf. subito 1,1). Questo «io» è protagonista ma, allo stesso tempo, quasi sparisce all’interno delle pericopi. La parola del Signore raggiunge il profeta («mi fu rivolta la parola di YHWH), oppure il Signore agisce nei suoi confronti in qualche modo («la mano di YHWH fu su di me»).

Di fatto, Ezechiele risulta completamente identificato con la prospettiva divina, al punto che la sua voce diventa un suono prestato a YHWH. Solo in Ez 1,2-3 qualcun altro parla a Ezechiele in terza persona: è l’attestazione di una comunità credente che ritiene opportuno certificare la missione del profeta.

La seconda particolarità del libro consiste nella presenza di un sistema di datazioni che lo attraversa.

Sono tredici indicazioni temporali, in genere complete di giorno, mese e anno. L’autrice le riporta in una tabella alle pp. 16-17: si va dal 31 luglio 593 al 26 aprile 571. Si discute sulla loro funzione (strutturante?), sulla loro precisa identificazione (cioè a quale giorno corrispondano nel nostro calendario attuale), sia sulla stranezza della loro disposizione dal punto di vista della cronologia (non sono poste in ordine), sia sul rapporto tra le date e il materiale che, nel testo, segue immediatamente (i brani successivi a una data devono essere pensati tutti come pronunciati dopo quel momento?).

Anticamente, le date erano ritenute un elemento unificante e segno della stesura integrale del libro da parte di un unico autore. Oggi non è più così, anzi si ritiene che esse costituiscono più un elemento problematico piuttosto che chiarificatore rispetto all’origine del libro.

Secondo l’autrice, è evidente che le date riferite agli oracoli contro le nazioni hanno un andamento autonomo e non seguono la cronologia generale. Ciò è probabilmente dovuto al prevalere di criteri di contiguità tematica piuttosto che cronologica.

Lingua e stile

Il libro è scritto per lo più in prosa, con uno stile alto e un lessico spesso difficile. È un esempio di ebraico di transizione. Ci sono molti aramaismi e prestiti dall’accadico. Si tratta di un ebraico difficile, stancante anche a motivo della ripetizione di molte formule («figlio dell’uomo», «casa di Israele»). Compaiono spesso la formula della parola-evento, la formula del messaggero, quella dell’oracolo, sempre con il doppio nome divino «Signore YHWH».

Tipica del libro è la formula della conoscenza di YHWH («sapranno/saprete che io sono YHWH»), la quale indica che lo scopo dell’azione divina è quello di avere una più profonda conoscenza di lui. Molte volte è applicata anche alle nazioni straniere.

I generi letterari impiegati sono di molte tipologie. I generi noti sono spesso usati in modo originale.

Ezechiele ricorre spesso al genere racconto di visione. Molte volte la quantità di testo narrata è vasta (cf. Ez 40–48). Strabiliante è spesso la complessità delle visioni, al punto che, spesso, non è chiaro che cosa venga effettivamente visto (cf. la visione iniziale della gloria, quella del c. 10 e la minuta descrizione dell’architettura del tempio nella parte conclusiva del libro).

Appaiono numerosi oracoli di sventura, secondo generi diversi: parabole o enigmi (Ez 15 e 17), lunghissimi testi di lite bilaterale (o rîb, come in Ez 16 e 20), oracoli contro i falsi profeti e le false profetesse, lamenti funebri (Ez 19), racconti riassuntivi della storia di Israele punteggiata fin dall’inizio dal peccato (Ez 23), oracoli contro le nazioni straniere…

Sono numerosi anche i racconti di azioni simboliche, spesso difficili da comprendere. Ezechiele deve mimare l’assedio di Gerusalemme, deve portare su di sé il peccato dei due regni (Ez 4–5), comportarsi come un emigrante e mangiare pane in modo particolare (12,1-20).

Il c. 21 contiene una serie di gesti particolari (parlare in una direzione specifica, piangere, tracciare due strade). In occasione della morte della moglie, non deve fare lutto (24,15-27); all’interno degli oracoli di salvezza deve accostare due legni come segno di riunificazione di tutto il popolo (37,15-28).

Non mancano generi vicini all’ambito sacerdotale e legale: ad es. la cosiddetta «Torà di Ezechiele» (cf. Ez 43,12), ovvero quella sezione in cui si stabiliscono le nuove norme per il funzionamento del futuro tempio (Ez 43–46 in particolare). Ci sono testi in cui si mostrano le responsabilità di ognuno nella trasgressione della legge e, soprattutto, il desiderio di YHWH che tutti si convertano al bene (Ez 18; 33,12-20).

Ci sono testi che si avvicinano al genere escatologico-apocalittico (Ez 38–39) e non mancano pericopi molto belle che fanno uso di motivi di origine mitologica (Ez 28 sul re di Tiro ed Ez 32 sul Faraone).

Compaiono, infine, gli annunci di salvezza, che utilizzano generi diversi: dalla narrazione per metafora di ciò che farà il nuovo pastore (Ez 34), a testi di promessa di una vita nuova in Israele (Ez 36,1-14 e 15-38), ma anche la visione delle ossa (Ez 37,1-14) o il racconto dell’azione simbolica dei due legni uniti (Ez 37,15-28).

Linee teologiche fondamentali

Il libro di Ezechiele non è molto conosciuto e amato dai lettori cristiani, a causa delle sue particolarità che sono state citate sopra (difficoltà di comprensione di gesti e visioni, lunghezza dei capitoli che li rendono non adatti all’uso liturgico, particolare insistenza sul culto e sul tempio, insistenza sulla dimensione del peccato di Israele e sul relativo castigo da parte di YHWH…). Anche il popolo ebraico si trova in difficoltà di fronte a questo scritto.

Nel 1989, P. Joyce parlò di «teocentrismo di Ezechiele», per descrivere come il Signore compaia in primo piano e agisca spesso in vista del suo essere conosciuto/riconosciuto in Israele e dagli altri popoli. YHWH agisce a motivo del suo nome, in ragione della sua identità, ma anche ha compassione del proprio nome o ne è geloso. Ezechiele ne mette in luce la sua santità e, nel testo, viene usato molto spesso il termine «santo» per indicare ciò che gli appartiene.

Dio campeggia nel libro di Ezechiele, ma non è solo e agisce in relazione a Israele e talvolta anche con gli altri popoli.

I profeti sottolineano spesso gli aspetti problematici del rapporto di alleanza che lega YHWH con Israele, in vista di un possibile ritorno alla pace e alla giustizia (cf. il genere letterario della lite bilaterale).

L’autrice sottolinea in modo particolare tre aspetti della teologia di Ezechiele.

  • YHWH non è lontano da Israele

Il libro si apre con una straordinaria apparizione di Dio al profeta in terra d’esilio, in Babilonia. Dio non appare nel suo tempio ma nella terra dei nemici. Il lettore è chiamato ad abbandonare ciò che sarebbe garantito e a lasciarsi condurre in terreni meno stabili ma fecondi.

Israele ed Ezechiele sono in esilio e il Signore si muove per raggiungere il popolo nel suo dolore e nella sua sconfitta. Israele ha bisogno di una parola che lo rimetta in cammino ed è lì che il Signore si fa presente.

Nel libro sembrano apparire due linee divergenti: YHWH appare in esilio (Ez 1–3) e, nello stesso tempo, si allontana dal suo tempio a motivo dei peccati di Israele (Ez 8–11).

YHWH si avvicina o si allontana? Entrambe le cose possono essere detta con verità, ma tenendo presenti le differenti motivazioni che soggiacciono all’azione divina, le persone a cui si relaziona (esiliati o rimasti in patria) e la conclusione del percorso complessivo.

YHWH è stato costretto ad allontanarsi dal suo tempio (Ez 8,6) ma non ha mai voluto andare lontano da Gerusalemme (e comunque va vicino agli esiliati, cf. 11,16). Il tutto si conclude con il trionfale rientro del Signore nella sua casa, nel tempio e in mezzo al paese (Ez 43,1-12). L’ultima parola del libro è «YHWH è là» (Ez 48,35).

YHWH è dunque il Dio che sceglie di stare in mezzo al suo popolo, ovunque esso si trovi. Anche il profeta è connotato da subito come colui che «sta in mezzo ai deportati» (Ez 1,1). L’unica realtà che, provvisoriamente, tiene lontano il Signore è il male sfacciato e non riconosciuto, l’esplicito e reiterato rifiuto di lui e della sua Parola. Ma anche a questo YHWH porrà lentamente rimedio facendosi aiutare dalla voce del suo profeta.

  • YHWH non è un dio sconfitto

Un popolo pesantemente sconfitto a livello militare e costretto a una doppia deportazione associa a sé, secondo la teologia del tempo, anche la sconfitta e la debolezza del dio protettore di quel popolo. Se Israele ha perso, anche YHWH ha perso e, se i babilonesi hanno vinto, anche le loro divinità – in particolare Marduk – hanno vinto.

Il Dio di Israele è quindi un dio debole, un dio sconfitto? Nel NT la vittoria del Dio cristiano si manifesta (almeno provvisoriamente) attraverso la sconfitta secondo la logica del mondo (cf. la rilettura del mistero della croce in 1Cor 1,18-25).

Sottolineare che YHWH lascia il suo tempio prima della sua distruzione è, in realtà, fondamentale. Si intende fugare ogni dubbio in tal senso. YHWH non è affatto un dio sconfitto perché non sono stati i babilonesi a mandarlo via dal suo tempio o a distruggere la sua casa. Egli aveva già scelto liberamente di allontanarsene per ben altri motivi.

Il risvolto di tale assunzione è drammatica: il vero nemico non sono i babilonesi, ma sono gli israeliti che, infatti, riescono nell’impresa in cui Nebkadnezzar fallisce. Dunque, YHWH non è costretto da Babilonia ad andarsene, ma proprio da coloro che egli ama. Per questo sarà nei loro confronti che dovrà manifestare tutta la sua forza.

Nel libro viene mostrato chiaramente che YHWH ha il potere di dirigere il corso della storia e degli eventi, anche rispetto a nazioni o governanti che sembrerebbero imbattibili (cf. i bei testi contro il re di Tiro e contro il faraone nei cc. 28; 29; 32).

Nessuno deve illudersi di possedere una posizione che non potrà mai essergli tolta.

  • YHWH non è vinto dal peccato d’Israele

Dio è giusto e salvatore. Il libro di Ezechiele trova il punto di svolta nel c. 33 con la dichiarazione che la città è stata conquistata dai nemici. Se ne parla brevemente, mentre ci si dilunga sulla preparazione dell’evento: Israele deve capire che va incontro a un destino terribile, che equivale alla sua stessa fine (cf. ad es. Ez 4–7) e ciò dipende dai suoi peccati.

I testi sul peccato di Israele sono molti e si dà per scontato che Israele non si convertirà (almeno nella sua componente maggioritaria) e che, quindi, l’unica cosa veramente saggia da fare è prepararsi a sostenere la fine (Ez 7), comprendendone le ragioni. Questi oracoli sono datati tra la prima e la seconda deportazione che avverrà.

La conversione attesa coincide dunque con la consapevolezza del male commesso e con l’accettazione della morte che ne consegue, riconoscendo che il Signore agisce secondo giustizia (cf. ad es. 14,23), L’assunzione del male (cf. il senso di vergogna in 7,18.29; 16,52.63; 36,31-32; 39,26; 40,10-11) permetterà di aprirsi alla speranza.

Il lettore deve comprendere due fatti: che la distruzione dev’essere intesa in un’ottica di giustizia e non può essere considerata iniqua; che YHWH interverrà comunque in favore di Israele con un’azione di salvezza e non lo abbandonerà per sempre nelle mani dei suoi nemici.

Questo secondo aspetto compare già negli oracoli di sventura (cf. 11,14-21; 16,53-63; 17,22-24; 20,9-12.14-17.22.33-44), ma diventa un elemento dominante a partire dal c. 34. La salvezza di YHWH non nega il peccato, ma dichiara che il suo amore è più forte di qualunque ribellione. Per questo è in grado di progettare un mondo nuovo in cui ogni relazione viene ristabilita secondo giustizia.

La visione finale del tempio immagina, così, una ricostruzione generale che va a toccare anche le istituzioni. Al centro, c’è il tempio (in cui YHWH ritorna) con il suo personale: i sacerdoti zadociti (discendenti di Zadoq, sacerdote al tempo di Davide e di Salomone) svolgono le mansioni principali, mentre i leviti hanno un rango inferiore.

Il re non è più nominato in quanto tale, ma diventa un principe, con un ruolo eminentemente cultuale (deve provvedere alle offerte). Tutto il popolo si deve riorganizzare, anche dal punto di vista spaziale, ricollocandosi nel territorio che aveva perduto in base alla suddivisione in tribù.

Il futuro somiglia molto a ciò che è antico: come all’origine Israele non aveva un re ed era organizzato per tribù, così sarà alla fine, quando il Signore tornerà a essere il vero sovrano d’Israele.

L’essere umano davanti a Dio

Ezechiele sottolinea principalmente la perversità di Israele, lasciando emergere una visione dell’uomo alquanto negativa. Questa affermazione va contestualizzata tenendo presente che una delle finalità del libro è convincere il popolo della giustizia del castigo (che ha già subito o che subirà).

Nello stesso tempo, YHWH non smette di andare alla ricerca del suo popolo e non rifiuta si stringere un nuovo patto con lui (cf. ad es. 16,60-62; 34,25; 37,26).

Ez 1,26 riporta un’affermazione importante sia per la sua rilevanza teologica sia per la sua posizione in apertura del libro. Si legge che, sul trono che Ezechiele può scorgere al di sopra del firmamento, si trova «qualcosa dalla forma simile a un uomo». Dall’insieme del testo risulta che si tratta di YHWH stesso.

Questa veloce affermazione recupera Gen 1,26 ma rende il messaggio ancora più pregnante: Ezechiele sostiene, senza mezzi termini, che Dio assomiglia all’uomo (e viceversa, ovviamente). Ne consegue che, per quanto terribili possano essere le azioni umane, questa sostanziale somiglianza non potrà essere cancellata. Per questo, YHWH è disposto a lavorare per donare al suo popolo il suo stesso spirito e un cuore finalmente di carne (11,19; 36,26-27; 37,14; 39,29), senza smettere di chiedere anche la sua collaborazione.

Il commento scientifico di Ombretta Pettigiani, abbordabile da tanti lettori ma godibile a pieno se si possiede un’adeguata preparazione esegetico-linguistica, è particolarmente benemerito in quanto dilucida il testo e il pensiero di un grande profeta, non molto conosciuto e apprezzato, al quale è ascritto un testo impegnativo da decifrare ma ricco di elementi letterari e teologici che hanno avuto e continuano ad avere una grande rilevanza nella letteratura e nella tradizione cristiane. Un profeta completamente dedito al suo Dio e al suo popolo, tanto da diventare profezia vivente nella sua stessa persona.

Viene in tal modo attestata una tappa preziosa della storia di salvezza del Dio-con-noi che, dalla creazione, giunge a pienezza in Gesù Cristo, per distendersi fino al pieno compimento nella parusia del Figlio dell’Uomo.

Ezechiele. introduzione e commento, a cura di Ombretta Pettigiani (Nuova Versione della Bibbia dai Testi Antichi 12), San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2024, pp. 448, € 35,00.

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