K. Barth, in dissonanza con Lutero, scrive con onestà e lucidità: «L’articulus stantis et cadentis ecclesiae non è la dottrina della giustificazione in quanto tale, bensì il suo fondamento e il suo vertice, cioè la confessione di Gesù Cristo,“nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col 2,3)» (p. 15, cit. dalla Dogmatik IV/1, 583).
Nei primi due capitoli del suo volume sulla giustificazione (pp. 13-48), Pitta traccia uno schizzo veloce dello status quaestionis sugli studi paolini rispetto a questo tema. Da decenni si è acceso il dibattito su quale sia il centro della teologia paolina. Se, nel passato, si puntava sulla “dottrina della giustificazione” (luterani e protestanti in genere) e sulla centralità della Lettera ai Romani per ricostruire il pensiero teologico di Paolo (cf. Dunn e il suo Roman Debate, a cui molti si sono opposti), ora molti pensano che questo sia solo un Nebenkrater (“cratere laterale”), sulla scia di un lavoro di A. Schweitzer sulla mistica paolina risalente al 1930 nell’originale tedesco.
La discussione sul pensiero paolino vede molti esponenti favorevoli a intravedere nelle categorie partecipazionistiche (“essere con Cristo”) le coordinate più rappresentative del suo pensiero e il tema della giustificazione per fede senza le opere un tema secondario, nato da situazioni ecclesiali concrete con cui Paolo interagisce a volte con foga, altre volte con più posatezza di esposizione.
Nel campo degli studi paolini The New Perspective si propone maggior attenzione alla contestualizzazione che si deve alle varie lettere paoline, ognuna con le sue caratteristiche. Essa «punta l’attenzione sugli indicatori che separano i giudei dai gentili per valutare l’alternativa sulle vie della giustificazione» (p. 184, cf. Dunn).
Grande peso sta sempre più acquisendo, inoltre, lo studio della retorica paolina, attenta all’organizzazione letteraria degli scritti di Paolo attorno ad una tesi da dimostrare. Non pura teologia, quindi, né semplice “distanziamento”. Pitta suggerisce di usare le categorie di “generalizzazione” o di “radicalizzazione” della strategia retorica rispetto alla contingente situazione epistolare che Paolo affronta (p. 21).
In questi anni, a partire soprattutto dal lavoro di E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese (or. am. 1977, tr. it. 1986), si è iniziato a guardare al giudaismo del primo secolo con occhi meno ingannati dagli stereotipi circa una religione ebraica legalista e farisaica, che attendeva la salvezza dalle opere della Legge. Una rivisitazione dei testi del giudaismo del secondo tempio, compresi anche quelli di Qumran (cf. la lettera halakica 4MMT) fa vedere come ci fosse l’attesa della salvezza da parte solo della misericordia di Dio e la visione del compimento delle opere quale mezzo per “stare dentro” nel patto in cui si era entrati (nomismo del patto).
Giustizia e giustificazione in Paolo hanno un’accezione relazionale e non giuridico-forense. La qualità inerente a Dio per cui egli è giusto in quanto è fedele al patto che lo lega agli uomini e in quanto rende giusti, cioè fedeli al patto, gli uomini che se ne fossero allontananti, infondendo loro lo Spirito di Cristo morto e risorto che li trasforma in figli di Dio, diventa una qualifica dell’uomo redento dal mistero paradossale della croce, inserito con la fede e il battesimo quale creatura nuova nella vita divina.
La tematica della giustificazione appare con 1-2Cor è diffusa in Gal, Rm e Fil (quattro lettere autoriali), con qualche propaggine nella prima (Col; Ef) e seconda tradizione paolina (2Ts; 1-2Tm; Tt). Il titolo del volume di Pitta, Giustificati per grazia, è tratto paradossalmente da Tt 3,7, un testo della seconda tradizione paolina. In Paolo, il concetto di giustizia/giustificazione ha sempre un valore salvifico, mentre nella grecità il verbo assume spesso un senso negativo di “condannare” o “dichiarare giusto”, sempre comunque con una connotazione forense.
Paolo dà una connotazione salvifica della giustizia/giustificazione perché il retroterra su cui si basa (con citazioni dirette, indirette, allusioni ed echi) è la Scrittura. Pitta fa notare come siano importanti i testi biblici del profeta Abacuc (Ab 2,4) e il libro della Genesi (Gen 15,6) quali fonti dimostrative, così come il testo di Sal 142,2, mentre il Sal 97,2-3 LXX stranamente non viene mai citato dall’Apostolo.
Il tema della giustificazione non costituisce una “dottrina” in sé completa, ma è un pensiero teologico, non sempre coerente e lineare, che nasce in risposta a situazioni ecclesiali contingenti (divisioni e culto della personalità a Corinto, pressioni per la circoncisione e la Legge da parte dei missionari giudeo-cristiani in Galazia, scontro fra “deboli” e “forti” a Roma, culto degli angeli a Filippi). La tematica è testimoniata per la prima volta in 1Cor, collegata al mistero paradossale del logos tou staurou, la “parola della croce”. La giustizia di Dio in Cristo, che ha visto dividersi gli interpreti paolini fra i sostenitori di un genitivo soggettivo e quelli del genitivo oggettivo, è interpretata da Pitta per il passo di 2Cor 5,21 come un genitivo di agente: giustizia di Dio (gen. sogg.) in Cristo (gen. d’autore).
In generale, va detto che tutte le lettere di Paolo sono contingenti, Romani compresa. Senza la posizione dei suoi “avversari” (il cui pensiero non mai riportato per esteso da Paolo e non sempre correttamente ricostruibile con il mirror reading) non si avrebbero le posizioni teologico-pastorali dell’Apostolo. Da avversari/opponents (o, più debolmente interlocutori) paolini identificati in passato con i giudei, ora si è passati a identificarli con dei giudeo-cristiani, spesso missionari anch’essi, ma con impostazione teologica e pastorale diversa da quella di Paolo.
Nel resto del suo volume (pp. 49-208), Pitta analizza la declinazione che il tema della giustizia/giustificazione assume nelle varie lettere: collegata alla parola della croce in 1Corinzi (pp. 36-47), in 2Corinzi (pp. 48-65) è collegata alla fede (i credenti quali giustizia di Dio) opposta all’empietà e collegata alla diakonia della carità (la colletta).
Galati (pp. 66-98) connette la giustificazione alla figliolanza divina. La propositio principalis (o, servendosi del greco, la tesi, identificata da Pitta in Gal 1,11-12 grazie alle sue caratteristiche di brevità, chiarezza, autonomia, funzione prolettica, capacità di ingenerare le dimostrazioni successive) riguardante la natura apocalittica (rivelativa, gratuita) del vangelo, viene poi dimostrata con una probatio autobiografica, una esperienziale e una scritturistica, con una parte paracletica che alcuni fanno rientrare nella probatio.
Con una fusione di orizzonti, Paolo passa dalla situazione dell’incidente di Antiochia alla situazione dei Galati sotto la pressone dei missionari giudeo-cristiani: «la mimesi o la rappresentazione del discorso, tenuto da Paolo ad Antiochia, assume un ruolo fondamentale di transizione tra i primi due capitoli di Galati e quelli successivi» (p. 75). Giustificati per fede in Cristo, si diventa figliolanza abramitica, figli nel Figlio discendente escatologico di Abramo, mediante il battesimo. La giustificazione è però anche sperata (Gal 5,2.12).
Nella Lettera ai Romani (pp. 99-176) la giustizia di Dio assume la connotazione di centro del vangelo. A partire dalla situazione contingente delle difficoltà di relazione tra i “forti” e i “deboli” delle comunità di Roma (più di una, una ventina secondo il paolinista Penna), Paolo espone la sua tesi principale in Rm 1,16-17 e la dimostra nel seguito della lettera con varie probationes introdotte da sub-propositiones.
Nel vangelo si rivela la giustizia di Dio, mentre fuori di esso si rivela solo la sua “ira”. La giustizia/giustificazione di Dio nella croce di Cristo è appropriata mediante la fede. La giustificazione apporta anche la riconciliazione e la vita di Cristo nello Spirito. La giustificazione è rapportata alla parola di Dio, che non è messa in scacco dalla mancanza di fede di Israele in Gesù Cristo. Anche Rm 9–11 è in tal modo rapportato alla tesi di 1,16-17. La giustizia divina come misericordia elettiva ha Cristo come fine (telos) della Legge (cf. Rm 10,4). Pitta argomenta: «… secondo l’andamento argomentativo dell’esordio precedente è preferibile pensare a Cristo non come la fine della Legge e del suo regime, ma il suo fine e il suo compimento: giunta a Cristo, la Legge non è stata raggiunta da quanti in Israele non hanno creduto all’evangelo. E, per quanto sembri strano, dal versante cristiano successivo, tale esito è naturale poiché la pietra d’inciampo o di scandalo non è stata posta da Israele sulla propria strada, ma da Dio in prima persona» (p. 169). In Rm 14–15 Paolo fa vedere, infine, le conseguenze etiche della giustificazione.
La Lettera ai Filippesi esprime il collegamento tra la giustificazione e la conformazione a Cristo, mentre le lettere della prima (Ef, Col) e della seconda tradizione (2Ts, 1-2Tm, Tt) evidenziano sì la giustificazione per grazia, ma mostrano un evidente slittamento (shift) di significazione. La giustizia diventa una virtù morale del giusto. La Legge non è per il giusto (1Tm 1,9-10). Giustificati per grazia (Tt 3,4-7), occorrere perseguire la (virtù della) giustizia (2Tm 2,22; cf. 1Tm 6,11).
Il volume si conclude con la bibliografia (pp. 209-222, divisa fra commentari e contributi), l’indice analitico (pp. 223-226) e l’indice degli autori (pp. 227-230).
Il pregevole lavoro di Pitta, uno fra i migliori paolinisti italiani e apprezzato studioso anche all’estero, è un denso volume di studio che, attraverso l’analisi di una categoria centrale (in ogni caso) nel pensiero dell’Apostolo – nato però dalla contingenza e senza volontà di costituire una “dottrina” –, permetterà alle persone appassionate della sua persona e della sua teologia (e pastorale) un aggiornamento generale sullo stato delle ricerche degli studiosi e, più in genere, un aiuto ermeneutico fondamentale per accostarsi alle sue lettere, costituito dalla “retorica paolina”.
Antonio Pitta, Giustificati per grazia. La giustificazione nelle lettere di Paolo, Collana «Biblioteca di teologia contemporanea» 190, Queriniana, Brescia 2018, pp. 240, € 18,00.
“In questi anni, a partire soprattutto dal lavoro di E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese (or. am. 1977, tr. it. 1986), si è iniziato a guardare al giudaismo del primo secolo con occhi meno ingannati dagli stereotipi circa una religione ebraica legalista e farisaica, che attendeva la salvezza dalle opere della Legge.”
Ho letto diversi lavori di Antonio Pitta e lo apprezzo molto.
Mi sembra però che sia proprio l’attuale pontefice con le sue reiterate invettive contro i giudei, i dottori della legge e i farisei a rappresentare un passo indietro rispetto questi studi.