Guareschi e la saga della Bassa

di:

don camillo

Da tempo avevo il desiderio di leggere gli scritti di Giovannino Guareschi. Pubblicati nel 2008 fra Le raccolte del Corriere della sera, due suoi volumi giacevano sullo scaffale della mia libreria da quella lontana data ed ora, anche per attenuare il morso di questa estate rovente e trovare conforto all’obbligata clausura, li ho finalmente aperti, anche per recuperare un mondo antico che ho avuto modo di conoscere nei suoi epigoni.

Un intellettuale «civile»

La biografia di Giovannino Guareschi ci consegna il profilo di un uomo e di un intellettuale di spessore. Nato da un padre «laico» e «internazionalista», estimatore di Napoleone, Verdi e Manzoni e da una madre cristiana e di assoluta fede mazziniana, che influenzeranno profondamente la sua formazione, ben presto è costretto a confrontarsi con rovesci famigliari, come il fallimento del padre che lo costringe ad interrompere gli studi e la morte del fratello sul fronte russo. In seguito subirà l’arresto per oltraggio contro Mussolini, l’internamento nei campi di concentramento in Germania, due condanne e la detenzione in carcere.

Significative le sue collaborazioni con riviste e quotidiani, fino all’approdo nel 1954 al Candido, settimanale politico e satirico con simpatie monarchiche, di cui fu direttore.

Attivo anche nella vita politica, nel 1946, in occasione del referendum istituzionale, si schierò apertamente a favore della monarchia e nel 1948 prese parte alla campagna elettorale che decretò la vittoria della Democrazia cristiana contro il Fronte popolare.

Per queste sue posizioni di destra fu particolarmente osteggiato non solo nella attività politica ma anche come scrittore, tanto che il suo nome e le sue opere non compaiono nei manuali scolastici e lui stesso dichiara che «per studenti che affrontano l’esame di abilitazione, può risultare “controproducente” includere il mio nome fra gli scrittori contemporanei».

Di qui la frattura fra il consenso popolare e una critica ostile, che rende «insolito e curioso» il caso «di un autore che sa conquistare la simpatia di milioni di uomini ma ha faticato a farsi prendere sul serio dagli addetti ai lavori».

Intellettuale «civile» egli fu anche definito e non perché si sottomise a qualche forza imperante, ma perché vicino alla gente, ai lettori: «Sono un uomo comune e quindi mi pare, parlando di me e dei miei, di fare un po’ la storia dei milioni di uomini comuni che con la loro assennata mediocrità tengono in piedi la baracca di questo mondo».

Un mondo antico

Il sesto volume, dal titolo L’anno di don Camillo, raccoglie 40 racconti selezionati da Mondo piccolo.

Per chi è nato e cresciuto nella pianura, i canali, le capezzagne che centuriano i campi, le coltivazioni di cereali, gli argini, i piccoli e grandi poderi formano le coordinate di una geografia interiore. Mentre il grande fiume che «scorre placido e indifferente» si porta via queste storie «verso il gran mare della storia del mondo».

Anche i caratteri dei personaggi che lo popolano collimano con le descrizioni che della gente della Bassa ci hanno consegnato i nostri avi.

I racconti contenuti nel volume abbracciano gli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, quando l’ideologia comunista attecchisce in quest’area rurale anche a seguito del lascito della Resistenza e della presenza di una manodopera indispensabile in queste terre di fatica: «A quei tempi, laggiù alla Bassa, erano arrivati il socialismo, le leghe, gli scioperi…». «Spesati» sono chiamati i braccianti che prestano la loro opera al servizio dei proprietari terrieri che, pur di non prendere a giornata questi poveri diavoli, esigono che moglie e nuore sfornino innumerevoli figli maschi.

Di qui la feroce contrapposizione fra dei diseredati che al partito comunista chiedono giustizia sociale ed economica e i possidenti che vedono tutelati i loro interessi e valori dalla chiesa.

È il mondo di Peppone e don Camillo, che, incarnando le opposte fedi e ideologie, si presentano come acerrimi rivali, ma nel profondo sono alleati perché nutriti dallo stesso humus. Don Camillo era da fanciullo il capobanda di una schiera di ladruncoli; sorpreso a rubare le mele, cambia vita e ricompare al paese vestito da prete. Quando definisce «bandito» un ragazzino colto nell’atto di spogliare il melo della canonica, il Cristo che lo guarda dall’altare gli ricorda questo suo passato: «… non lo chiamerei bandito, don Camillo. Ho conosciuto qualcuno che, da bambino, coglieva mele su quell’albero e, in seguito…».[1]

Viceversa Peppone, di nascosto, chiede la grazia alla Madonna dei campi per il suo bambino e, nello stesso tempo, ammonisce don Camillo che «Sarebbe bene che non andaste in giro a raccontare che noi facciamo i bulli e poi, quando abbiamo bisogno di qualcosa …».[2]

Tuttavia la rivalità fra il prete e il sindaco è sempre guardata con ironia e umorismo, lente con cui lo scrittore sembra suggerire che, come nei racconti le opposte fazioni trovano la loro composizione nel riconoscimento vicendevole della comune umanità, così anche nella realtà sociale e politica del tempo non perdere di vista il valore umano è fondamentale per la ricostruzione di una nazione distrutta dal conflitto.

Il patriarcato, a queste latitudini, impera e le vittime privilegiate sono le donne che accettano con rassegnazione il ruolo di sottomesse; ma sempre questa loro sottomissione è strumento di redenzione per mariti e figli, soprattutto quando questi ultimi hanno vocazioni e doti per percorsi di vita diversi, come lo è Carlino, figlio di Giacomo Dacò: «Il vecchio si trovò davanti la moglie, che, vestita con l’antico abito nero della festa e tenendo in mano un fagotto, stava avviandosi verso la porta che dava sull’aia»[3]. È così che la madre, che aveva compreso il desiderio di studiare del figlio, sfida lo scatenarsi della violenza del marito, pur di esaudire le aspirazioni del ragazzo. Viceversa il padre lo benedirà come figlio prediletto.

Un nuovo mondo: la piccola borghesia

Nei racconti compresi nel quinto volume dal titolo Piccolo mondo borghese, nella realtà contadina penetra la piccola borghesia che rispecchia la nuova classe emergente in Italia nel secondo dopoguerra e a cui le nuove forze politiche rivolgono le loro attenzioni a scopo di consenso.

A popolare la fantasia di Guareschi sono ancora gli umili: ex-contadini che, come gli umili verghiani, tentano l’arrampicata sociale per diventare impiegati, imprenditori commercianti, maestri. Ma, diversamente dai pescatori di Aci Trezza, essi continuano ad essere assistiti dalla Provvidenza anche quando questa mette alla prova, punendo nei figli le colpe dei padri: «Il gelo non può toccare il tronco che ha la scorza dura e impenetrabile; tocca il germoglio», e chiede che una vita di violenza e di durezze sia riscattato da un cammino di espiazione.[4].

«Fantastico reale» è l’etichetta che la critica ha attribuito ai racconti di Guareschi e forse tale inquadramento è comprensibile, perché anche per le storie più travagliate e per i personaggi più compromessi da azioni ignobili, lo scrittore sa indicare un varco, una possibilità di riscatto che, se non va a beneficio dei personaggi stessi, lo diventa, quanto meno, per il lettore.

Anche le favole consegnano lo stesso messaggio di speranza, nonostante, qui, sia la città a fare da sfondo alle vicende. L’alienazione è ora la cifra nella quale si trovano a vivere i personaggi che, se pur guardati da Guareschi con una vena di malinconia e di scetticismo perché deprivati delle coordinate concrete e morali di un mondo rurale ormai finito, trovano in sé la molla per recuperare un barlume di umanità. Questo è quanto si evince da quel padre che, chiamato asetticamente “il Presidente”, di fronte alla letterina indirizzatagli dal figlio con i desiderata per Natale, comprende il suo bisogno di attenzioni e scopre la bellezza della paternità.[5]

Complessa e articolata è, dunque, la narrativa di Guareschi, perché in essa compare sia il mondo di don Camillo e di Peppone, che, se pur dominato dall’istinto e quotidianamente in lotta per la sopravvivenza, è l’unico umanamente vivibile, sia la realtà urbana dove gli individui, prigionieri di un progresso che corrode «la loro vita spirituale», sono come formiche su una grossa palla di terra sulla quale «si danno disperatamente da fare per cercare di vivere sempre più scomodamente».[6]


[1] G. Guareschi, Il capobanda piovuto dal cielo, in L’ anno di don Camillo, Rizzoli ed. Corriere della sera, Milano 2008.

[2] Ivi, Il voto.

[3] Ivi, Mai tardi

[4] G. Guareschi, L’Esagerato, in Piccolo mondo borghese, Rizzoli ed. Corriere della sera, Milano 2008.

[5] Ivi, Vita con la madre

[6] Ivi, L’estate del Pestifero.

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