Nel dubbio, si può sempre tornare a san Paolo, più precisamente alla Lettera ai Romani, e più precisamente ancora al capitolo 8, che periodicamente andrebbe letto e riletto per intero. Per brevità limitiamoci a un versetto, il 22, nel quale si afferma che «tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi». (…) È in questo tempo intermedio, testimone di un’attesa conseguente a una promessa, che si colloca l’avventura della preghiera. La quale, per definizione, non apparterrebbe allo scorrere del tempo, quanto piuttosto alla sospensione atemporale dell’estasi, ossia del separarsi da sé per incontrare l’alterità. La preghiera non è compimento, però è attesa. (…)
La preghiera è contemporanea solo a sé stessa, come dimostra un drappello di saggi da poco usciti in rapida successione. La concomitanza con l’Anno della Preghiera proclamato per il 2024 da papa Francesco non è dichiarata e, in fondo, potrebbe anche essere casuale. Fatto sta che in questo primo scorcio del XXI secolo di preghiera si continua a parlare, sulla preghiera si continua a riflettere e a confrontarsi. E non nella prospettiva di un nostalgico arcaismo nutrito di rimpianto per il sacro perduto. Al contrario, l’interesse per la preghiera si annida negli interstizi di una ipermodernità che ha fatto della tecnologia il proprio emblema.
Preghiera e ipermodernità in libreria
Algoritmi e preghiere (Luiss University Press) è infatti il titolo del libro nel quale il sociologo Guerino Nuccio Bovalino sviluppa la sua riflessione sull’«umanità tra mistica e cultura digitale». In buona parte debitrice dei contributi di altri studiosi, la trattazione di Bovalino ha il merito di valorizzare il dispositivo concettuale di «tecnologia della speranza», originariamente suggerito da Luciano Floridi e adesso sviluppato in una trattazione che assegna alla tecnologia stessa il ruolo di «profeta» e non di «profezia»:
«L’Intelligenza Artificiale è l’oracolo che parla la lingua dell’ultima versione, il più recente upgrade, dell’homo deus – sottolinea l’autore –. Nel profetizzare i futuri stravolgimenti, essa trasforma il reale e come ogni nuova lingua costruisce una inedita architettura della realtà, la riforma».
Di preghiera come «tecnologia del sacro» scrive anche Franco La Cecla in Convincere Dio (Einaudi), una raccolta di «note sul pregare» che, secondo lo stile del noto antropologo, alterna osservazioni personali e ragionamenti di sistema. Uno dei temi ricorrenti è costituito dalla presenza del rosario in contesti culturali differenti, accomunati dalla fiducia in una ripetizione rituale che si configura, in definitiva, come «una forma di annullamento del soggetto».
Il paradosso di cui la preghiera rende conto è esattamente questo: per intraprendere l’impossibile missione di «convincere Dio», bisogna prima rinunciare a sé. Detto altrimenti, per imporre la propria volontà occorre desistere da ogni atto di volizione.
La tessitura del libro di La Cecla è fittissima, tutto si tiene e, nello stesso tempo, ogni dettaglio sembra prestarsi a una divagazione ulteriore. Nonostante questo, rimane chiarissimo il punto di approdo, che coincide con l’interrogativo su «una eredità non trasmessa» o, meglio, «una incomprensione rispetto a qualcosa che abbiamo tenuta nascosta e che, nel frattempo, nel baule in cui l’abbiamo custodita, è ammuffita».
L’attualità della tradizione spirituale dell’Occidente, la cui crisi è denunciata da La Cecla, è invece al centro di Parlare con Dio di Umberto Curi (Bollati Boringhieri), una «indagine» nel corso della quale gli esiti dell’umanesimo antico vengono messi a confronto con le istanze del cristianesimo. Il filo conduttore è la percezione di una «eccedenza» intesa come il luogo nel quale l’umano pienamente si manifesta, in un incessante negoziato con l’invisibile di cui rimane traccia nel pensiero dei filosofi come nel grido dei poeti tragici, nella lingua scabra della Bibbia come nelle finezze della prosa teologica.
Particolarmente illuminante è l’interpretazione delle Beatitudini condotta da Curi con il doppio passo dell’etica classica (dove predominante è il concetto di misura imposto dall’esercizio delle virtù) e dell’annuncio evangelico (che rimanda semmai alla dismisura del dono).
Discende da questa irriducibilità della preghiera a un’unica dimensione dell’esperienza la convinzione polemica espressa da un altro antropologo, Stefano De Matteis, fin dal titolo del suo Gli sciamani non ci salveranno (Elèuthera).
Intrecciando ricerca sul campo e approfondimento teorico, De Matteis mette in discussione l’ossimoro di un rassicurante ateismo spirituale sul quale poggiano le discipline pulviscolari generate dalla dissoluzione del New Age. Perché l’attraversamento del «mondo interiore» non si esaurisca in una perenne ripetizione dell’uguale, è necessario applicare «la regola della gratuità», che permette di condividere il respiro comune della vita.
Non per niente, è sul ritmo elementare del respiro che la madre si concentra mentre «geme e soffre le doglie del parto». Se il travaglio del mondo non è finito, forse il tempo della preghiera non è ancora cominciato.
Alessandro Zaccuri è direttore della comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Collabora al quotidiano Avvenire. Il suo romanzo più recente è Poco a me stesso (Marsilio, 2022). Pubblicato sul quindicinale online VP Plus+, 29 giugno 2024
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Molto interessante! Alessandro (che conosco e posso dargli del tu) recensisce diversi libri tra i quali mi ha incuriosito quello di La Cieca che cercherò. Potrebbe scrivere di più anche per SettimanaNews!
Pregare è un’altra cosa rispetto a quello che in questi apporti si vorrebbe descrivere e denigrare. Non togliamo alla speranza il fondamento della trascendenza.
“E non nella prospettiva di un nostalgico arcaismo nutrito di rimpianto per il sacro perduto.” Questa frase, contenuta nel terzo paragrafo dell’articolo, sembra mettere in chiaro fin da subito che si, si parla di preghiera, ma guai a parlare di chi prega con le forme che ormai la chiesa col concilio ha abbandonato e questo papa intende demonizzare sopra ogni cosa, ossia le preghiere della Tradizione. Eppure, ironia della sorte, la foto “immagine” di questo articolo è un piccolo bambino musulmano che prega….che prega in arabo, seguendo un orientamento, delle regole, una postura, un determinato abbigliamento, una guida religiosa insindacabile e a cui va il massimo rispetto, lontano dalle donne (perché la donna non può stare a fianco dell’uomo davanti a Dio perché vale meno!). Eppure anche noi cristiani non avevamo una lingua sacra? Delle posture? Un abbigliamento preciso per la domenica? Una distinzione di posti nel luogo sacro rispettivamente per le donne, per gli uomini, per i ministri sacri, per i religiosi?…..insomma i soliti due pesi e due misure della follia di un cristianesimo che, rinnegando se stesso, non fa altro che ammirare negli altri ciò che lui ha perduto.