Il gesuita francese Jacques Sommet, molto noto in Francia per il suo impegno intellettuale e per essere stato il primo direttore del Centre Sèvres, riuscì a sopravvivere alla deportazione nel campo di concentramento di Dachau. L’esperienza a stretto contatto con la macchina di morte nazista lo convinse a scrivere due articoli, uno intitolato «La condizione disumana», pubblicato nel luglio 1945 sulla rivista Études, l’altro, la «Conquista della libertà», nell’aprile 1946 nei «Cahiers du monde nouveau».
Sicuramente pagine di testimonianza, ma Sommet non intendeva raccontare soltanto le condizioni di vita in un campo di concentramento: l’ambizione fu quella semmai di far parlare l’uomo di fede e quindi di cogliere, anche nel contesto di uno sterminio pianificato, una lezione di umanità ed una speranza per il futuro. Quella speranza che gli aguzzini nazisti intendevano demolire anche con la leva di iniziali illusioni.
L’autore – con questo suo stile che riesce a fondere empatia e visione spirituale – ricorda infatti che poco prima di partire per la Germania i prigionieri reclusi a Fresnes erano fin troppo speranzosi di migliorare la loro condizione: «Questa macchina delle illusioni ha prodotto il suo effetto. Quasi tutti i prigionieri accettano l’irreparabile immaginandolo del colore dei propri sogni» (p. 8). Un incantesimo che dura poche ore perché poi inizia il viaggio dentro dei vagoni strapieni, ammassati peggio degli animali: «Risa e giochi ci indicano il nostro destino: non più persone, ma oggetti di poco conto di cui ci si burla, siamo entrati nella condizione disumana» (p. 9).
Il gregge al lavoro
L’arrivo nel campo di Dachau conferma tutte le paure di Sommet e dei suoi compagni di prigionia: spogliati, disinfettati, numerati, si sfaldano tutti i gruppi, si accresce sempre più un “isolamento nella promiscuità”; e così, esposti al gelo della notte, inizia la vita “del gregge al lavoro”, interrotto solo da malattia, punizione e morte. Una condizione che vuol dire perenne incertezza, numeri tra i numeri, senza un vero spazio vitale.
Sommet ha continuato a domandarsi quale fosse lo scopo di questo sistema disumanizzante, autentico mistero di iniquità, e presto ha compreso che dietro l’esigenza del lavoro c’era sempre e comunque una volontà di sterminio, che chiamava in causa anche le punizioni apparentemente più umili. Di fatto era stato pianificato tutto: sfinire i corpi e così uccidere anche le anime. Un progetto di morte che però non riuscì ad annientare completamente coloro che prima o poi sarebbero stati sterminati; e non soltanto perché poi l’esercito alleato riuscì a sconfiggere i nazisti.
Il ricordo di Sommet va infatti alla luce che comparì dietro le ombre: «Nel campo c’erano anche uomini, laici o religiosi, di sinistra o di destra, che, nel giorno della prova, avendo accettato già da molto tempo la morte, hanno soccorso i loro fratelli dimenticati». In questo modo, raccontando dei militanti che hanno rischiato la vita per assicurare ai compagni un kommando migliore, oppure dei venti preti che si chiusero volontariamente nel blocco dei contagiati, viene evidenziato come abbiano vissuto in qualche modo nell’assoluto, «realizzando in loro stessi il valore eterno e sempre presente della persona umana che si voleva abbattere» (p. 32).
Sulla frontiera
Nello scritto «La conquista della libertà» Sommet analizza anche i comportamenti dei militanti marxisti, solidali nella miseria, impregnati di una fede e di una disciplina di azione, ma pure condizionati dal dover rimanere fedeli “alla Storia”: «Bisogna scegliere tra l’efficacia organizzata e il dono totale al fatto umano imprevedibile» (p. 68).
L’articolo pubblicato nei «Cahiers du monde nouveau» ha forse un taglio più teorico, una sorta di “continuazione più riflettuta”, come fu scritto nella nota introduttiva, rispetto al precedente «La condizione disumana». È innanzitutto una riflessione sul vero significato di Dachau, ovvero la frontiera permanente di un’umanità alle porte della morte, con l’intento di mettere nero su bianco alcuni elementi della psicologia collettiva «di questa massa proletaria, submana» (p. 49).
Eppure, nonostante il tentativo da parte degli aguzzini nazisti di schiacciare ogni espressione di umanità, Sommet ha evidenziato il miracolo scaturito da una condizione che non lasciava scampo: dal nulla «una sorgente che non poterono reprimere, una sorgente melodiosa: la vittoria di una libertà nata da se stessa» (p. 52). È quella che viene definita la “Coscienza dell’eterno”, la consapevolezza che, nell’ascolto del messaggio dei morti e di coloro che hanno sofferto per salvarli, l’esperienza limite di Dachau ha acquistato un valore universale: «Ovunque infatti bisogna essere pronti a vincere una morte inutile al mondo» (p. 70).
Jacques Sommet, La condizione disumana. Un gesuita a Dachau, EDB, Bologna 2017, pp. 80, € 8,00. La recensione di Luca Menichetti è ripresa dal sito Lankenauta, novembre 2020. Jacques Sommet (1912-2012), gesuita francese e pensatore impegnato in battaglie ecclesiali e sociali, venne deportato a Dachau nel 1944. Consulente del settimanale Témoignage chrétien, è stato rettore della Compagnia di Gesù a Lyon-Fourvière e primo direttore del Centre Sèvres di Parigi.