Una fredda mattina d’inverno, il dottor Fleischmann è costretto ad affrontare l’inizio di una progressiva perdita di memoria. Medico e uomo di scienza, si ritrova suo malgrado in un universo dominato dai misteriosi rapporti tra il destino e i meccanismi che regolano la vita. Giungerà presto alla conclusione che «Tutto è scritto negli spazi bianchi tra una lettera e l’altra. Il resto non conta». La legge degli spazi bianchi, di cui anticipiamo un estratto, è anche il titolo del racconto che inaugura l’omonima raccolta di Giorgio Pressburger (1937-2017), pubblicata da Marietti 1820 oltre trent’anni fa e ora riproposta in una nuova veste (pagine 192, euro 16.50). Il volume, in libreria dal 14 maggio, ha ispirato l’omonimo film del regista e sceneggiatore Mauro Caputo, presentato lo scorso anno alla Mostra del cinema di Venezia. Scrittore e regista di origine ungherese, Giorgio Pressburger è sfuggito con la famiglia allo sterminio nazista nascondendosi nei sotterranei di una sinagoga. Dopo l’invasione sovietica del 1956 ha abbandonato in modo rocambolesco Budapest, rifugiandosi prima a Vienna e poi in Italia. Nel 1988 ha vinto il Premio Viareggio con La neve e la colpa.
Un mattino d’inverno il dottor Fleischmann si accorse di non ricordare più il nome del suo migliore amico. Era solo in casa. La governante lo accudiva soltanto i giorni feriali. La sua vecchia amica, Lea, era costretta a letto da una forte emicrania. Durante la notte il medico aveva sognato un terremoto e successivamente l’incontro con uno strano individuo dai capelli lucidi di brillantina, che tutti chiamavano lo Spirito del Tempo.
La mattina si svegliò e gli venne in mente il suo amico, maestro di scacchi, speaker della televisione. Il suo numero telefonico non l’aveva mai annotato sul taccuino foderato di pelle, né l’aveva memorizzato con il piccolo calcolatore ricevuto in regalo da un cugino residente nel Connecticut. Telefonava all’amico tutti i giorni. Gli sembrava superfluo fissare sulla carta o nei circuiti elettronici una serie di numeri che la sua mente richiamava a sé con tanta frequenza. Ma in novembre il suo amico era partito per una vacanza di quattro settimane.
Durante quel tempo il suo numero telefonico si era cancellato dalla memoria del dottor Fleischmann. Voleva cercarlo nell’elenco telefonico. Ma sotto quale nome cercare? Per più di dieci minuti né nome né cognome di Isacco Rosenwasser tornarono in mente al medico. «Guarda un po’, si vede che sto ancora dormendo», disse a sé stesso, quella mattina. Si diede un pizzicotto in un braccio. «Anche questo potrebbe essere soltanto un sogno, disse ancora, ad alta voce. – Sognare di darsi un pizzicotto, che idiozia», pensò.
Fleischmann ci teneva all’ordine e alla solenne sentenziosità dei propri pensieri. Riusciva a dire massime auree a ogni proposito e i suoi pazienti lo reputavano un vero maestro di vita, oltre che grande medico.
Sul suo calcolatore personale teneva annotati i dati di ogni visita, l’anamnesi di ogni paziente. La sua vita affettiva restava al di fuori di questo tentativo di ordinamento perfetto del mondo: madre, figli, mogli, amici, non corrispondevano a nessuna tabella visibile sullo schermo del suo calcolatore.
«Come si chiama, – insisteva con sé stesso quella fredda mattina – ce l’ho qui sulla punta della lingua e non riesco a ricordare il suo nome. Siamo cresciuti insieme, che vergogna!».
Ben presto la sua indignazione si tramutò in una paura dapprima timida, poi sempre più violenta. «E se fosse l’inizio di una malattia?». Scacciò quel pensiero. «Per un banale inciampo della memoria non è il caso di pensare subito al peggio. Le sinapsi di due neuroni non si sono capite. Una molecola di fosforo o di potassio non è stata traghettata sull’altra riva tra due cellule della corteccia cerebrale».
Si alzò dal letto. Eseguì alcuni esercizi di ginnastica. Aveva cinquantacinque anni, era nel pieno del suo vigore.