A causa del peccato di Israele, Mosè ruppe le prime tavole ricevute al Sinai. Mosè le riscrisse, indicando con i dieci comandamenti linee di etica universale a promozione della vita. “Scegli la vita”, dice la Torah, non “scegli il bene”. Con il buco nero della Shoah, in cui è apparso il male assoluto, radicale, è stata pianificata con spietata lucidità la distruzione dell’intero popolo di Israele. Con questo orrendo tremendum della storia, stella dell’irredenzione secondo il docente di Pensiero ebraico a Trento e a Urbino, si è posto nella storia un evento da conoscere, ma che non si può com-prendere (P. Levi).
Anche le seconde tavole sono andate distrutte e con esse infranta l’alleanza di Dio con Israele e con l’umanità.
Con Auschwitz si pone la domanda senza risposta sul silenzio di Dio e l’esilio della Parola (A. Neher), sul suo essere un «Dio che si nasconde/’el mistatter». Dio ha volto lo sguardo dall’altra parte e il suo popolo ha rischiato dei essere annientato.
Quel che esce da Auschwitz per alcuni pensatori è una rivelazione, un appello di Dio a cambiare e a prendere in mano il proprio destino. Per altri non vi fu alcuna rivelazione, perché Dio si rivela solo nel bene e per il bene. Dal Sinai, si discese nella storia secondo una risposta sempre più malata a Dio e alla sua Torah.
Il Sinai alla luce della Shoah (pp. 43-96) fa vedere gli esiti terribili, incomprensibili – irredimibili per Giuliani –, dell’uomo lontano da Dio e dall’uomo stesso. Capovolgendo il titolo di Rosenzweig, Auschwitz è per lo studioso la stella dell’irredenzione.
La Shoah alla luce del Sinai (pp. 97-150) fa vedere l’alleanza infranta, a pezzi. Pezzi raccolti da Israele che, assumendo l’esistenza non solo come destino ma anche come missione, ha deciso di fare conversione, tešuvah, prendere in mano il filo della propria esistenza, anche senza la presenza di Dio nascosto e silenzioso, per dedicarsi alla Torah, alla preghiera, al ritorno a Sion e alla costituzione dello Stato di Israele.
Auschwitz, Sinai e le terze tavole
Na’aśeh we-mišma’, «faremo e ascolteremo», disse il popolo al Sinai. Dopo la Shoah, Israele ha messo in pratica questo. Auschwitz non può distruggere totalmente l’alleanza. Ha deciso di continuare credere nel suo Dio, nonostante il suo silenzio e il nascondimento del suo volto (hester panîm). Ha deciso di non lasciare la vittoria a Hitler, soccombendo al peso del genocidio e della memoria sterile rinchiusa nel lutto. Prevale invece una memoria carica di fede di volontà di operare il bene, di costruire umanità e giustizia per tutti.
Queste sono le terze tavole. Terze tavole, immateriali come le altre, ma che intendono reggere la vita dell’Israele credente e non – così come di tutti i popoli –, radunato intorno a una memoria collettiva non ripiegata sul male subìto, ma aperta a opere di giustizia e di pace.
Auschwitz non è un nuovo Sinai. Paragone audace avverte Emil L. Fakenheim. È sì un tempio di lacrime, ma non è un nuovo tempio o un luogo di rivelazione. Mettere Aushwitz al cuore del giudaismo, come il Sinai, è il più grave degli errori, afferma Michael Wyschgorod, perché Israele prosegue la vita non per rispondere ad Auschwitz, ma per la fede nel Dio del Sinai. «Ciò che non possiamo punire si manifesta come imperdonabile» afferma Hannah Arendt, e anche per Giuliani l’evento di Auschwitz è irredimibile e nemmeno Dio può perdonare al posto delle vittime.
«Se il mondo potesse udire, “se così si può dire/kivjakôl”, la voce del Signore che piange, esploderebbe», scrive Kalonymus Kalman Shapira nelle sue omelie scritte per sostenere gli ebrei nel ghetto di Varsavia. «Ascolta, Signore, la mia preghiera, afferma il salmo, presta ascolto al mio grido: non restare in silenzio di fronte alle mie lacrime» (Sal 39,13).
Ribaltando una categoria rivelativa riferita a Dio da parte di Rudolf Otto, Arthur A. Cohen ricorda che porre una simmetria tra il Sinai e il tremendum è un gesto di terrorismo teologico. Sono eventi asimmetrici, incommensurabili. C’è una simmetria, ma non assiologica. L’accostamento porta a pensare, a non dimenticare, ad assumersi delle responsabilità. «È come se Dio fosse rimasto, “se così si può dire/kivyakôl”, senza potere dinanzi a quei terribili eventi», tenta di spiegare David Weiss Halivni.
Tîqqun ‘ôlam
Leggendo invece la Shoah alla luce del Sinai, in piena fedeltà al patto di Abramo, di Mosè e di Giosuè, per altri pensatori Israele ha dimostrato ancora che «‘am jiśrael ḥaj/il popolo di Israele vive». Parte di pensatori avvertirono che, nonostante la crisi della Shoah, è la scelta di rinnovare l’alleanza sinaitica che deve rientrare e illuminare i pensieri dei figli di Israele nel futuro. A Israele spetta il compito di contribuire al tîqqun ‘ôlam, all’«aggiustamento/riparazione/redenzione del mondo», afferma Fakenheim.
La scelta di vita del popolo ebraico si incarna principalmente e messianicamente nel ritorno a Sion, nella rifondazione di uno Stato ebraico e nella ricostruzione di Gerusalemme (così Saks, Wassermann, Teichtal).
L’alleanza infranta, all’inferno
Davanti alla sofferenza, ci si può accontentare di vivere la propria vita come esistenza-destino/fato (goral) o di viverla come esistenza-missione/vocazione (jiûd), ammonisce il grande Joseph B. Soloveitchik. Egli ricorda che, sul Sinai, Dio ha trasformato un’alleanza-destino in un’alleanza-missione, un popolo di schiavi in una nazione santa. Ciò che è stato recepito come fato/destino inconsapevolmente nel segno della circoncisione, va ora riappropriato in modo volontaro. L’alleanza va «volontarizzata» (I.J. Greenberg).
Se Auschwitz fu l’espressione del nascondimento del volto/hester panîm» di Dio, lo Stato di Israele per Soloveitchik rispecchia il ritorno di Dio alla provvidenza attiva. «Non vi è migliore testimonianza della presenza di Dio nella storia della storia del popolo ebraico», afferma da parte sua Eliezer Berkovitz. Per questo studioso Auschwitz va interpretata come «prova» della fede d’Israele in un Dio che si nasconde e che tuttavia salva, a dispetto dell’apparenza. Il servo sofferente di Isaia è proprio il popolo di Israele, e di questa figura Israele deve riappropriarsi, contro ogni deriva cristiana cristologica.
Ad Auschwitz Dio è andato all’inferno con il suo popolo (E. Berkovitz, With God in Hell: Judaism in the Ghettos and Deathcamps). In quel «buco nero» è avvenuto l’esilio della šekinah, la sofferenza di un Dio che condivide il destino storico del suo popolo (E. Lévinas). Dopo esser disceso al Sinai, essersi legato e aver sposato l’umano, Dio è disceso ad assaporare il pane amaro dell’alienazione e dell’oppressione.
L’alleanza volontarizzata
Dopo Auschwitz, ora «tutto dipende dall’uomo» (così E. Lévinas riassume l’opera del rabbino Ḥajjim di Volozhyn). Se «tutto dipende dall’uomo», se tocca al popolo ebraico «salvare Dio» (Hetty Hillesum) e ciò che la Shoah ha distrutto della fede e dei costumi tradizionali, molti pensatori hanno visto nel sionismo, il movimento di rinascimento ebraico (M. Buber), l’atto di autoredenzione più alto del popolo di Israele dopo la distruzione del tempio da parte dei romani. Al cuore del giudaismo bastano infatti il Sinai e l’impegno a continuare l’alleanza, secondo il rabbino moderato David Herman (A Living Covenant. The Innovative Spirit in traditional Judaism).
Giuliani ama molto il pensiero di Irving Jitzchaq Greenberg. Secondo questo rabbino, storico e teologo statunitense, dopo la Shoah nessuna alleanza è più completa e sacra di un’alleanza spezzata. Dall’alleanza andata in frantumi per la prova insopportabile e insuperabile di Auschwitz, occorre ripartire da qui, da questa «stella dell’irredenzione» e volontarizzare l’alleanza: “Voluntary Covenant”.
Egli è l’autore che più ha colto lo specifico ebraico dell’alleanza infranta. Ad Auschwitz la posta in gioco è Dio stesso, l’esistenza stessa di Israele, il futuro dei loro figli e il senso della tradizione che risale fino ad Abramo, all’alleanza con Dio e alla promessa divina che da allora l’accompagna.
«Il mare non si dividerà più una seconda volta, afferma Greenberg, il potere divino si è auto-limitato e su di noi gravano responsabilità aggiuntive». Il popolo di Israele deve riprendere in mano la propria vita, le proprie responsabilità di testimone di Dio, della giustizia e della pace offerte tutte nelle «terze tavole».
Il volume è una splendida opera, densa di concetti, punteggiata di testi – molti dei quali tradotti per la prima volta in italiano – di filosofi, rabbini e teologi ebrei sul tremendum di Auschwitz. Filosofia, teologia, qabbalah, midrash, midrash sul midrah: tutto il tesoro dell’ermeneutica ebraica è sfruttato per poter arrivare a conoscere meglio, non a com–prendere, la notte di Auschwitz.
Di Auschwitz bisognerebbe tacere, concorda Giuliani. Nel caso in cui se ne parli, questo è fatto perché si assimili con la mente e con il cuore (non con il business o con la vuota retorica) la lezione tremenda là impartita all’umanità e la notte eruttata dal male radicale non abbia mai più a prendere il sopravvento sugli uomini.
Massimo Giuliani, Le terze tavole. La Shoah alla luce del Sinai (Conifere 19), EDB, Bologna 2019, pp. 176, € 16,50, ISBN 978-88-10-56020-4