La speranza che Giobbe esprime – vedi il titolo del libro – è quella contenuta in Gb 19,25-27 e, secondo la cinquantunenne religiosa orsolina di San Carlo, biblista nuorese docente a Verona e alla FTIS di Milano, esprime la nota principale del libro biblico ben noto per la drammaticità del suo contenuto.
Nelle sue note essenziali a ciascuna delle principali sezioni del libro, Grazia Papola commenta brevemente la vicenda del dramma di Giobbe (“Dov’è il padre?” oppure “Dov’è il nemico?”).
Nella parte in prosa del testo (Gb 1–2; 42,7-17), il Giobbe paziente accetta da YHWH il male come in precedenza ha ricevuto il bene e, alla fine, sarà reintegrato nei sui beni, raddoppiati.
Nella parte in poesia (Gb 3,1–42,6) il Giobbe ribelle si rivolge invece a YHWH con tutti i toni a sua disposizione per lamentarsi della propria sorte tragica, sproporzionata rispetto anche a qualche eventuale colpa commessa.
La retribuzione
Sia Giobbe che i suoi tre amici (che danno vita a nove dialoghi) credono nella dottrina della retribuzione. Al bene fatto corrisponde una ricompensa positiva, al male compiuto spetta una punizione corrispondente.
Gli amici vi credono ferreamente, mentre non credono al loro amico Giobbe e diffondono implacabili una dottrina religiosa creata da loro stessi, non tenendo conto della realtà concreta e tragica del loro amico. Di fatto non dialogano neppure con lui, ma proclamano impersonalmente sentenze trite e ritrite. Per loro la dottrina vale più della vita – con le sue evidenze e contraddizioni – e dell’amicizia stessa.
Giobbe si ribella ai loro levigati discorsi accademici, e da una iniziale condivisione della dottrina della retribuzione, giunge infine alla riscoperta di un Dio vivo che ascolta le persone in difficoltà, un Dio che non si nasconde e non tace, ma che viene incontro alle persone prostrate dal dolore. Un Dio superiore e diverso dal puro ufficiale pagatore di premi e di punizioni.
Giobbe afferma la sua incrollabile fiducia, speranza e fede in YHWH suo riscattatore/gō’ēl (più che “redentore”), che prima della sua morte si ergerà sopra e forse ancor più contro la polvere (ambivalenza della preposizione ebraica ‘al), si farà vedere da Giobbe che così lo contemplerà da vicino, non come un estraneo.
Il Dio vicino
Giobbe cerca di incontrare e di vedere un Dio vivo e vicino all’uomo. È attanagliato dal dolore e dal problema che esso uscita in rapporto all’esistenza di un Dio buono. La sua ricerca però non è di tipo intellettuale, ma esistenziale. Cerca di incontrare Dio, di vederlo e non solo di «ascoltarlo con un ascolto di orecchio» (così letteralmente Gb 42,3), “per sentito dire”.
Alla fine della sua ricerca, YHWH gli risponderà. Neanche lui risolverà l’enigma del male e del dolore, ma allargherà la mente di Giobbe alla meraviglia del creato e a confini più vasti della sua percezione immediata e circoscritta. Lo aprirà allo stupore.
Nell’epilogo si narra della reintegrazione di Giobbe nei suoi beni, raddoppiati, e dell’approvazione che YHWH fa delle sue parole: “cose rette/nekōnāh”, rispetto a quelle degli amici, tacciate di “stoltezza/nebālāh”. I beni ottenuti da Giobbe nell’epilogo della sua vicenda (Gb 42,7-17) non sono premi, anche perché non reintegrano i beni persi e il dolore patito.
L’importanza del libro di Giobbe sta nella speranza che il protagonista continua ad avere in YHWH e nella riconciliazione a cui giunge con i suoi amici, a cui perdona pregando e intercedendo presso il Signore. Per questo motivo egli riceverà il raddoppio di tutto e una vita lunghissima. Ma questi beni non sono i più importanti, e li riceve non per la legge della retribuzione ma per la preghiera e il perdono concessi. Sono espressione di una vita che è arrivata alla pace e alla riconciliazione con se stessa, nonostante il fatto che il dolore e l’enigma del male continuino.
Questioni aperte
Vorrei soffermarmi su due punti. Non sono convinto che in Gb 2,10 si debba leggere, come fa Papola (p. 32) appoggiandosi sulla biblista Costacurta, un’affermazione («da Dio non riceviamo il male») piuttosto che una domanda.
La grammatica di Joüon-Muraoka, & 161a, p. 609, afferma esplicitamente che la particella interrogativa tende a cadere quando è seguita dalla congiunzione waw. Inoltre qui, secondo me, Giobbe partecipa ancora pienamente della fede nella legge della retribuzione.
Sono invece molto felice che, per quanto riguarda Gb 42,6, Papola riprenda e faccia sua (finalmente!, p. 65) la traduzione del biblista Borgonovo (che incontrerà senz’altro mentre insegna a Milano…), espressa nella sua formidabile tesi di dottorato: Per questo detesto polvere e cenere ma ne sono consolato. Giobbe non si pente di niente (cf. invece traduzione CEI 2008, ancorché sia nota la polisemia della radice nḥm), tanto che viene lodato da YHWH.
Giobbe detesta la polvere e la cenere del dolore, che prova tutt’ora, e che YHWH non ha spiegato neppure alla fine dei suoi discorsi, ma ne è consolato perché sente YHWH vicino a sé, amico dell’uomo e non suo nemico o giudice implacabile.
Il problema del male e del dolore non è risolto neanche nel libro di Giobbe, il quale può essere visto come un anticipo di Cristo che prega angosciato – ma non disperato – sulla croce.
Il libro di Giobbe non è un catechismo in cui sono importanti le risposte. Qui sono importanti le domande che vengono dalla vita e non le risposte che vengono dalla dottrina ripetuta in modo isterico. Quando, alla fine, si vede Dio, cadono anche le domande e nasce la consolazione, il cammino condiviso di Dio con l’uomo fragile e caduco, ma pur sempre figlio amato che va accompagnato e sostenuto nei sentieri non facili della vita.
Bel libretto, davvero, molto utile per una questione cruciale della fede e circa un libro biblico non sempre spiegato in modo corretto.
GRAZIA PAPOLA, La speranza di Giobbe (Le ispiere s.n.), EDB, Bologna 2019, pp. 80, € 8,00, ISBN 978-88-10-56915-3.