La via del ricordo

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In occasione della Giornata della memoria, pubblichiamo un capitolo del libro per ragazzi La via del ricordo, di Sergio Badino, recentemente pubblicato dalle Edizioni Dehoniane Bologna.

Il preside e i professori scelsero un venerdì mattina. La scuola stava per finire, mancavano pochi giorni: la primavera si librava nell’aria insieme agli uccelli e al profumo dei tigli, che mi ricordava quello della marmellata e che si faceva strada nelle case, nelle scuole e negli uffici.

La palestra era colma come non l’avevo mai vista, molto più di quando il nonno era venuto la prima volta: oltre agli studenti seduti per terra, a qualche genitore e agli insegnanti, c’erano anche molte persone chiamate da Costanza, appartenenti ad associazioni e a fondazioni come la sua e alla comunità ebraica.

– «Sei emozionata?», mi disse papà. Indossava una splendida cravatta.

– «Siamo molto fieri di te, e anche nonna Anna lo sarebbe», sorrise.

La mamma mi diede un bacio su una guancia e mi lasciò un piccolo segno di rossetto.

– «Oh, no», – disse, – «scusami…», e si affrettò a pulirlo con un fazzoletto.

– «Come sto?», disse il nonno.

Continuava a lisciarsi le maniche della giacca.

– «Sei molto elegante», gli sorrisi, e gli raddrizzai la cravatta sotto il gilet. Ultimamente aveva bisogno di una mano anche per scegliere e indossare i vestiti e stavamo pensando di trasferirci tutti insieme in una casa più grande in cui poterlo aiutare da vicino. La voce del preside tuonò attraverso il microfono, anticipata da un fischio sottile.

– «Buongiorno e benvenuti nella nostra scuola», disse. – «Oggi è una giornata importante per la memoria della Shoah e delle persecuzioni contro gli ebrei perpetrate nel corso del secondo conflitto mondiale. L’associazione “Binario della Memoria” – si voltò verso Costanza, elegante in un vestito a fiori, e le sorrise – ha posto alla nostra attenzione la ricerca di un’allieva, Renata Colombo, così giovane, ma anche così determinata nel portare avanti il lavoro di sua nonna Anna, scomparsa di recente. Anna De Benedetti, oltre a essere stata valente collaboratrice dell’associazione, è stata anche diretta testimone di quei tragici anni, deportata in tenera età nel campo di concentramento di Auschwitz insieme a colui che sarebbe diventato suo marito, il signor Umberto, che è qui con noi.

Il preside indicò il nonno: dal fondo della palestra, dove ci trovavamo, camminai insieme a lui, tenendolo per mano, tra due ali di compagni di scuola, seduti a terra, che si voltavano a guardarci e applaudivano.

Salimmo, accanto al preside e a Costanza, su una pedana in legno preparata per l’occasione, su cui erano state sistemate cinque sedie. Ci sedemmo e una rimase vuota. L’applauso scemò e il preside passò il microfono a Costanza.

– «Grazie a tutti», – disse lei, – «e, in modo particolare, a Renata e a nonno Umberto. Sono stati loro a far sì che oggi la vostra scuola potesse accogliere un’ospite davvero speciale.

Sbirciai di lato e vidi la porta dalla quale sapevo sarebbe dovuta entrare. La immaginai lì dietro, emozionata come lo ero io, a tormentarsi le pieghe del vestito e a fissarsi le punte delle scarpe coi tacchi, con una mano già pronta sulla maniglia.

– «Perché, vedete», – continuò Costanza, – «non tutti i testimoni della Shoah sono stati vittime dei campi di concentramento. C’è anche chi può raccontarci una storia che forse già conosciamo o immaginiamo, ma da un’angolazione diversa. Vi chiedo un bell’applauso di incoraggiamento per la signora Bruna Rossi».

Tutti batterono le mani, ma la porta restò chiusa. Andrea, seduto in prima fila, mi lanciò un’occhiata perplessa. La situazione divenne imbarazzante anche per noi sul palco: l’applauso si affievolì e il preside aveva già preso il microfono in mano, quando Bruna varcò la soglia e ci venne incontro. Il battito di mani ebbe un’impennata e lei, che aveva preso a camminare con aria decisa, arrossì appena e salutò in modo un po’ goffo con una mano e un sorriso tirato, fino a prendere posto tra Costanza e me. Il preside le passò il microfono.

– «Ciao a tutti», – disse, e la sua voce raspò attraverso le casse. – «Vi dico subito che ho fatto fatica a venire qui. Per mille motivi, uno dei quali è la difficoltà che ho sempre avuto a parlare in pubblico».

Cominciai a battere le mani: scaturì un nuovo applauso che le diede un po’ di sostegno. Bruna sorrise e guardò in basso.

– «Vi ringrazio», disse. – «Scommetto che vi state domandando chi io sia. Beh, vi assicuro che me lo sono chiesto anch’io, tante volte, e ho continuato a farlo anche di recente, quando la nonna di Renata è venuta a cercarmi.

Mi guardò e notai solo allora che teneva tra le mani un foglietto spiegazzato. Lo guardava spesso e capii che vi aveva scritto una scaletta con le cose che voleva dire, per essere sicura di non dimenticarle.

– «“Rossi” –», proseguì, – «non è il mio vero cognome. O meglio, ormai lo è, perché mi sono sempre chiamata così, ma ho scoperto quand’ero già grande che in realtà avrei dovuto chiamarmi in un altro modo. Ho vissuto per tanti anni nascosta, conducendo una vita in apparenza normale, ma in realtà sempre attenta a non farmi scoprire. Non tanto io, quanto mia madre. Dovevo stare attenta che lei non fosse smascherata».

Fece una pausa e guardò il pubblico: ragazzi e adulti che ormai aspettavano solo che lei proseguisse.

– «Mia madre è stata una kapò», – disse dopo aver preso un respiro, – «una sorvegliante del campo di concentramento di Auschwitz. Sapete chi erano i kapò? I vostri professori ve l’hanno spiegato?».

Un mormorio percorse la palestra. Insieme a Costanza, che la l’aiutò con qualche domanda mirata, Bruna narrò la storia di sua madre, quella che a noi aveva raccontato a casa sua. Mai una volta, però, ne pronunciò il nome. Quando finì, sembrava che uno strato di brina avesse ricoperto i miei compagni e gli adulti: per qualche secondo nessuno fiatò; poi cominciarono le domande.

– «Quindi», disse un ragazzo con la mano alzata, – «sua madre è viva?».

– «Quanti anni ha?», chiese una mia compagna di un’altra classe. – «E come si chiama?».

La palestra si riempì ancora di un brusio simile a quello di uno sciame d’api. Bruna, a disagio, si guardava intorno, con il suo foglietto schiacciato in un pugno.

Dovevo fare qualcosa, ma non sapevo cosa. Guardai il nonno, che con un sorriso e il cenno di una mano mi incitò a parlare. Mi allungai verso il microfono.

– «Scusate…», dissi piano, ma il mormorio non cessava. – «SCUSATE!», urlai, e ottenni silenzio. Tutti mi guardavano con gli occhi a palla. – «Grazie», sorrisi. – «Quello che ho imparato da questa storia è che, nella terribile vicenda della Shoah, ci sono stati tanti tipi di vittime. Le più famose, purtroppo, sono state le persone rinchiuse nei campi e poi sterminate, ma ce ne sono state anche altre. Chi, come i miei nonni», indicai nonno Umberto, – «è sopravvissuto, poi non ha avuto vita facile. Nonna Anna e nonno Umberto mi hanno insegnato che gli orrori patiti ad Auschwitz non si dimenticano mai e restano dentro per sempre a chi li ha subiti, condizionandone la vita. Chi sceglie di raccontare, di condividere la propria esperienza, come i miei nonni e come tanti altri, lo fa per cercare di far capire ai più giovani, come noi, che discriminare e perseguitare chi non la pensa come te è sbagliato. Siamo tutti uguali e tutti diversi, ed è bello così».

D’un tratto mi sentii avvolgere da un applauso, nato all’improvviso, tutto per me. Mi voltai stupita verso il nonno: stava per scendermi una lacrimuccia, ma lui, con entrambe le mani, mi fece segno di proseguire.

– «Anche i kapò», dissi, – «sono stati vittime, e…», mi bloccai: vidi che tutti erano tornati a guardarmi con occhi a palla. «Che sta dicendo, questa?», pensavano. Glielo leggevo in faccia. Ero sul punto di essere presa dal panico, ma Costanza intervenne in mio aiuto.

– «Quello che Renata vuol dire», disse spiegò,– «è che anche loro erano prigionieri, a cui veniva prospettata la scelta tra continuare la reclusione, e quindi morire, oppure diventare kapò: per poter sopravvivere, dovevano passare dalla parte dei cattivi».

Un ragazzo si alzò in piedi.

– «Ma io avrei scelto la prigionia –», gridò, – «piuttosto che dover far male a qualcun altro! Così si sono messi sullo stesso piano dei nazisti!».

Altro, fragoroso applauso, dopo il quale Bruna si alzò in piedi e allungò una mano verso Costanza per farsi ridare il microfono.

– «Hai ragione», – disse, – «ma guarda che qui nessuno li vuole giustificare. Né io intendo scusare mia madre. I kapò furono criminali tanto quanto coloro che costrinsero altri esseri umani alla progioniaprigionia, agli stenti, e poi alle camere a gas. È giusto quel che dici: potevano scegliere. Non una scelta facile, ma di sicuro avevano la facoltà di compierla. Ecco perché», – disse con gli occhi rossi, – «per me è così difficile perdonarla».

I mormorii cessarono e tutti osservammo Bruna mentre si asciugava le lacrime con un fazzoletto di carta.

– «È la mia mamma, e ora è solo una vecchietta molto malata. Tutti voi avete una madre e sapete che cosa voglia dire volerle bene: anche per me è stato così. Le ho voluto bene per tanti, tanti anni, e gliene voglio ancora, ma so che non si è mai ribellata al sistema di cui era prigioniera, anzi, è stata parte attiva degli orrori del regime nazista. Se da un lato si è adoperata per salvare le vite del signor Umberto e di sua moglie, dall’altro ha contribuito a mandare alle camere a gas un numero di persone a cui preferisco non pensare. Per questo non riesco né posso perdonarla o giustificarla, e sono le sue stesse azioni, non io o voi», – indicò prima se stessa e poi il pubblico davanti a lei, – «a condannarla».

Fece un’altra pausa, stavolta molto breve, e poi ricominciò.

– «Qualcuno, prima, mi ha chiesto come si chiami. Si chiama Elsa Stocker», di nuovo mormorio in tutta la palestra, – «ed è ricoverata in una casa di riposo in Piemonte sotto il nome di Elena Rossi. Soffre di Alzheimer in stato avanzato e non ricorda nulla del suo passato. Non mi riconosce nemmeno più. Io sono qui, oggi», – tirò su col naso, – «perché ho capito che la memoria di quei giorni sta scomparendo dato che, a poco a poco, si stanno spegnendo le persone che li hanno vissuti. Ma sarà impossibile dimenticare se ci sarà qualcuno in grado preservarla, e quel qualcuno sono io», – si toccò il petto con un indice, poi si voltò verso di me, verso il nonno e verso Costanza, – «siamo noi», – rivolse lo sguardo ai ragazzi davanti a sé, – «e siete tutti voi».

Scoppiò un applauso così forte che per un attimo ebbi l’istinto di portarmi le mani alle orecchie. Il nonno, in lacrime, mi porse una mano per farsi aiutare ad alzarsi e andò verso Bruna: vederli abbracciarsi fu una sensazione strana e meravigliosa allo stesso tempo e anche io ebbi voglia di unirmi a loro. Cercai con lo sguardo mamma e papà: erano in fondo alla palestra e mi sorridevano. Sembravano molto felici. Anche Andrea, in prima fila, ci rivolse lo stesso sguardo colmo di gioia.

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