Questa non è una recensione, è un appello. Cari amici di SettimanaNews, soprattutto se giovani, diciamo dai quaranta in giù (ah, questa giovinezza che non finisce mai), procuratevi Giuseppe Dossetti e le officine bolognesi, appena pubblicato da Il Mulino, e leggetelo. Leggetelo e rileggetelo se volete capire qualcosa di quello che è successo – e quello che non è successo – in Italia dal dopoguerra a oggi, se volete capire come hanno agito i nostri padri tra Costituzione e Vangelo, tra fede e storia. Leggetelo se volete apprezzare la grandezza della sfida che i cattolici italiani hanno affrontato, prima e dopo il Concilio, per restare fedeli alla Parola abitando la città dell’uomo.
Non esagero, credetemi. Il titolo non deve spegnere la vostra curiosità: questo non è l’ennesimo saggio su Dossetti e dunque sul cattolicesimo democratico e dunque su una stagione ormai al tramonto. Certo, si potrebbe leggere anche così ma sarebbe troppo poco, saprebbe di minestra riscaldata per la milionesima volta. Invece non è così, ve lo garantisco, e già la seconda parte del titolo dà respiro all’impresa e incuriosisce: si parla di una città, Bologna (ma leggendolo scoprirete che si viaggia anche a Parigi, Milano, Roma, Cuernavaca, Recife), e di “officine”, plurale che evoca schiere di artigiani pieni di passione e competenza che girano attorno a un personaggio fondamentale nella storia civile e religiosa del Novecento. Ma ancora più stuzzicante è la copertina: dovrete andare a pagina 75 per decifrarla. (Fatelo pure subito, questo è un libro che regge benissimo una lettura non lineare; assaggiatelo come meglio credete, servendovi dell’indice dei nomi e di quello generale).
Ah, non vi ho ancora presentato l’autore. Si chiama Paolo Prodi, classe 1932. Prima che al cognome badate al nome. È lo stesso dell’Apostolo delle genti e con lui condivide la stessa sincerità, la parresia per usare un termine rimesso in circolo da papa Francesco. Ma qui, a proposito di parresia, mi piace citare Karl Rahner: «Solo chi non si deve più difendere può in ogni caso essere sincero con il prossimo». Ecco, Paolo è una delle pochissime persone che io conosca che non deve difendersi da alcunché, un uomo libero insomma. Anche con un cognome così? Certo, leggete l’introduzione e capirete che Paolo è sempre stato libero dalla logica del clan, prima quello familiare e poi quello comunitario – la “comunità di destino storico” che nei primi anni Cinquanta si era formata a Bologna attorno a don Giuseppe Dossetti, Pippo per gli amici, e che nel corso degli anni cambierà volto e membri più volte. Non c’è mai stata una sola officina bolognese, come pretendeva Giuseppe Alberigo e tuttora pretende Alberto Melloni, e quindi non ha molto senso parlare di una “scuola di Bologna” come continua a fare una comunicazione pigra o interessata.
Ha sempre parlato molto chiaro, Paolo, una franchezza e soprattutto una lucidità che lasciano sbalorditi. Come può un ragazzo di poco più di vent’anni scrivere le lettere che troviamo in queste pagine? Lettere a Pippo, agli amici e compagni di avventura, alla moglie Dede (che è il suo primo interlocutore e ha condiviso ogni suo passo), in cui Paolo mette a fuoco il senso del proprio cammino mentre esercita una critica affettuosa e stringente di quello che vede davanti a sé. E cosa vede? Un gruppetto di uomini e donne che si riuniscono attorno a Dossetti, al Dossetti che ha abbandonato la vita politica di cui è stato protagonista massimo (la Costituente, la Democrazia cristiana) e ha deciso di dedicarsi «allo studio della storia come condizione preliminare e indispensabile per comprendere il presente e agire per trasformare la realtà». Il Centro di documentazione di Bologna nasce da questa intuizione ma ben presto deve fare i conti con le tensioni interne: chi pensa a una comunità monastica e chi vuole restare laico, chi si fissa sul Concilio e chi guarda oltre, chi punta a una gestione manageriale (una fondazione abile a raccogliere fondi e a far parlare di sé) e chi vuole mantenere indipendenza e originalità.
Paolo non fa sconti agli amici e neppure ai parenti (Alberigo aveva sposato una sorella della moglie), ben presto fa emergere la sua inquietudine e la sua insofferenza per una piega degli eventi che, a suo parere, non è all’altezza dell’intuizione di Dossetti e così, gradualmente, prende le distanze da Via San Vitale. Mai così tanto, però, da sentirsi estraneo né tantomeno ostile. Un rompiscatole, questo sì. Nemmeno l’unico, comunque, dato che nel libro troviamo altre figure del genere: Michele Ranchetti, ad esempio, o Pier Cesare Bori. Ma, a proposito di nomi, l’altra grande figura che emerge da libro è quella di Ivan Illich. Paolo, che è stato suo grande amico, racconta il «progetto, non andato in porto, per la fondazione in America Latina di un centro di riflessione e ricerca, analogo a quello bolognese, sul processo di acculturazione del cristianesimo nell’età coloniale». In realtà nell’estate del 1966 Illich fonda a Cuernavaca, in Messico, un Centro interculturale di documentazione (Cidoc), che sarà una spina nel fianco del colonialismo teologico imposto da Roma ma che non riuscirà a diventare un motore di ricerca scientifico come era nelle intenzioni (le vite parallele di Paolo e Ivan sono piene di fallimenti e scomuniche).
Cari amici di SettimanaNews, leggete questo libro. Io l’ho fatto e sono entrato dentro un’avventura, l’ho sentita mia almeno un po’. Paolo Prodi racconta un’intera storia ma intera nel senso di integra, coerente, vissuta fino in fondo, e quindi al tempo stesso parziale e provvisoria, sempre aperta al confronto. In questo senso il suo racconto è tanto singolare quanto plurale, sincronico e diacronico; c’è un andirivieni tra passato presente futuro, tra vivi e morti, che forse nemmeno lui s’immagina. Perché quello che racconta – mettendo in gioco se stesso, tirando fuori le carte e i ricordi personali senza perdere un grammo di autorevolezza e di rigore scientifico – è finito ma non è finito, è uno sguardo su un’epoca che si può delimitare in diversi modi – prima e dopo il Concilio, subito dopo la guerra e fino al Sessantotto, tra la fine degli stati nazione e l’avvento del mondo globale – ma con la quale dobbiamo fare ancora i conti, anche soltanto perché i più ne sono rimasti imprigionati, sprovvisti della lungimiranza di Dossetti, Illich e dello stesso Prodi.
Ma la partita è aperta per un’altra ragione, ancora più interessante. Le domande di Paolo sul potere, sulla fede, sul destino delle amicizie e delle istituzioni, sull’intreccio tra parole e Parola, maturate nel confronto con Pippo e gli altri, non hanno perso nulla della loro urgenza, anzi. Ci sono anche aspetti apparentemente più modesti che mi hanno colpito di queste pagine: l’importanza delle letture, e quindi la biblioteca come luogo decisivo dell’officina, e l’insistenza sul metodo. Filologia, scavo, ricerca: Prodi la declina in molti modi ma mi pare che sia la questione centrale. Dove manca il metodo, lo stile di lavoro, e tutto si riduce ai contenuti – la pantomima dei contenuti! –, è un guaio. Così come è un guaio la mancanza di conflitto, sostituito da rancori e calcoli di bottega.
Qui, in queste pagine, di conflitto ce n’è eccome: aperto, leale, sincero. Conflitto con Pippo stesso quando a Paolo sembra necessario. Diversamente da altri, Prodi non rivendica un’eredità ma testimonia un’amicizia e per onorarla oggi, a vent’anni dalla morte dell’amico e maestro, cerca, e ci riesce, di liberare Dossetti dal dossettismo: una strumentalizzazione di cui Pippo stesso, negli ultimi anni, era perfettamente consapevole. Strappare Dossetti al dossettismo, sottrarlo a una contesa miope frutto di rendite di posizione: l’occupazione degli spazi, per dirla con Bergoglio (ormai anche Bergoglio va strappato al bergoglismo…). È solo uno dei motivi di interesse di un libro davvero pieno di spunti e di livelli di lettura, in cui nomi date luoghi incrociano uno sguardo, quello di Paolo, che si è guadagnato sul campo, quello della ricerca storica, la credibilità e direi anche l’appeal (c’è del buonumore che circola in queste pagine). Leggetelo e vi verrà voglia di leggere altro, di suo. E magari di Pippo, e di Ivan. Così forse l’officina, anzi le officine, non chiuderanno.