Il volumetto riporta quindici lettere scambiate fra due donne ebree, filosofa la Arendt, storica studiosa della Shoah la Yahil.
Arendt seguì il processo tenuto ad Eichmann a Gerusalemme con inizio nel maggio del 1961, dopo essere stato rapito dal Mossad e portato in Israele. La sentenza che condanna Eichmann alla pena di morte verrà emessa nel dicembre del 1961. La corte israeliana si trovò a giudicare una fattispecie giuridica di un crimine mai commesso in precedenza, nel quadro di una mentalità criminale che era abbracciata e legalizzata dallo stesso Stato. Qual era la responsabilità personale in uno Stato “criminale”?
Per Arendt, il burocrate Eichmann, che si limitò a non pensare e a obbedire, ha una responsabilità personale anche dentro una dittatura. Non è una “rotella dell’ingranaggio”.
Arendt fece un reportage del processo che venne pubblicato nel febbraio-marzo del 1963 in cinque articoli sul New Yorker. Quattordici lettere riportate nel volume sono comprese tra il 5 maggio 1961 e il 30 aprile 1963. La quindicesima, e ultima, di Yahil ad Arendt, è del 27 ottobre 1971. Dopo due anni di conoscenza e amicizia, il rapporto si interruppe bruscamente nel 1963 e non fu ripreso mai più.
Come ricorda Ilaria Possente nella sua pregevole introduzione (pp. 5-36), Arendt, che nel 1963 scrisse in inglese La banalità del male (ed. it. Milano 1964), non aveva aderito al sionismo, era favorevole ad un’intesa arabo-ebraica ed era sospettosa delle degenerazioni delle democrazie massificate, mentre era invece favorevole a esperimenti e progetti di tipo democratico e federativo. Non era convinta della linea progressiva della storia dei popoli, che invece conosce interruzioni e svolte violente, né della necessità di uno Stato per esprimere e proteggere l’identità ebraica di un popolo.
Yahil era invece convinta della continuità del popolo israeliano, nel quadro istituzionale di uno Stato, ben radicato nei valori del popolo ebraico del passato, che fluiva in continuità progressiva nelle esperienze attuali.
Per Arendt, invece, «l’orrore totalitario segna una discontinuità e una cesura rispetto al passato: quanto è accaduto rende improponibile concepire la storia come un “processo” e rivela l’urgenza, per la politica ebraica, di ripensare il sionismo in una prospettiva inedita, che abbandoni il paradigma dello stato nazionale» (cf. pp. 12-13). Lo spazio politico è «come il luogo della nascita, dell’imprevisto, dei nuovi inizi… Si tratta […] di tenere presente l’arte benjaminiana del “pescatore di perle”: quando il mondo vacilla e ogni riferimento pare perduto, possiamo cogliere schegge di una tradizione in frantumi e reinventarne l’uso in contesti inediti» (cf. pp. 13-14).
Arendt teme che il popolo ebraico cominci a credere solo in se stesso, e questo sarebbe vera e propria idolatria. Insiste sulla separazione tra religione e Stato e sulla necessità di nutrire il pensiero critico, senza irrigidirsi sulla logica del “noi” e del “loro”, dell’inclusione e dell’esclusione. Arendt teme fortemente la fede nella nazione.
Come si vede, si tratta di considerazioni molto attuali.
Il libretto esprime bene le dissonanze (così Possenti nel sottotitolo della sua introduzione) fra due grandi studiose, ebree, la prima fuggita nel 1933 dalla Germania negli Stati Uniti, la seconda riparata in Palestina nel 1934. Un carteggio interessante, che già contiene i germi delle idee espresse da Arendt ne La banalità del male.
Hannah Arendt, L’amicizia e la Shoah. Corrispondenza con Leni Yahil. Introduzione di Ilaria Possenti, Collana «Lampi d’autore», EDB, Bologna 2017 (or. ted. 1961-1971; ed. ingl. Yad Vashem Sudies 37[2009]2), pp. 112, € 9,80.