Vincenzo Di Pilato è docente ordinario di Teologia Fondamentale presso la Facoltà Teologica Pugliese. Il suo saggio, intitolato «Sulle tracce di una semeiotica kairologica. Ritmica trinitaria e metodologia teologica sulla “Via” del Vaticano II», costituisce la Prefazione del volume Per una lettura dei segni dei tempi. Un percorso multidisciplinare, curato dallo stesso V. Di Pilato per Cittadella (2024). Il volume raccoglie i contributi che docenti di varie istituzioni hanno offerto in occasione di un Seminario di ricerca presso l’Istituto «Regina Apuliae» della Facoltà Teologica Pugliese dal titolo: «Per una lettura dei segni dei tempi. Epistemologia, fondamenti, percorsi».
Negli anni cinquanta del XX secolo, il teologo protestante Paul Tillich riconosceva esserci una “correlazione” di stampo agostiniano tra le risposte che mediante molteplici linguaggi nel mondo umano insistentemente vengono ricercate e “la” domanda che ogni uomo o donna “è”. «Il suo essere è la vera domanda – scriveva il teologo luterano – scavando in profondità l’uomo domanda, e questa profondità è lui stesso (…). Nessuna risposta è comprensibile se non è risposta a una domanda che abbiamo fatto»[1].
Nel corso della storia della Chiesa, a questo principio epistemologico è stata non di rado ascritta la «grave responsabilità» che i vescovi avvertono di avere in merito al compito di «conservare inalterabile il contenuto della fede cattolica, che il Signore ha affidato agli Apostoli»[2]. Così riportava Paolo VI nella Esortazione nata dalla Terza Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi su “L’evangelizzazione nel mondo moderno” (1974).
Anche se tradotto in tutti i linguaggi, questo contenuto non dev’essere né intaccato né mutilato; pur se rivestito dei simboli propri di ciascun popolo, esplicitato mediante formulazioni teologiche che tengano conto degli ambienti culturali, sociali ed anche razziali diversi, deve restare il contenuto della fede cattolica, quale il Magistero ecclesiale l’ha ricevuto e lo trasmette[3].
Questo assunto suscita, nondimeno, un legittimo dibattito teologico volto a fugare il dubbio circa l’impossibilità che il contenuto “immutabile” della fede possa “adattarsi” a contesti culturali e religiosi “altri”. Si dovrebbe forse intendere il contesto come il “recipiente” in cui riversare indifferenziatamente un sapere universale della fede?
L’enciclica Fides et ratio (1998) ha posto in guardia i teologi e le teologhe dal contrapporre, da una parte, «una filosofia di origine greca ed eurocentrica» e, dall’altra, il «pluralismo delle culture» evitando in tal modo l’oscuramento del «valore universale del patrimonio filosofico accolto dalla Chiesa» (n. 69). La questione verte, dunque, da una parte sul preservare «il deposito della fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina» – rassicurava Giovanni XXIII all’apertura del Vaticano II, l’11 ottobre 1962 –, dall’altra, sul ricercare nuovi «modi» per annunciare il Vangelo agli uomini e le donne di oggi. È quanto troviamo nella Costituzione dogmatica della Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes (GS). […]
Riprendendo il filo conduttore di Evangelii nuntiandi, nel suo primo documento magisteriale, programmatico del suo Pontificato, l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium su “L’annuncio del Vangelo nel mondo attuale”, papa Francesco precisa con chiarezza che la Chiesa non può «pretendere che tutti i popoli di tutti i continenti, nell’esprimere la fede cristiana, imitino le modalità adottate dai popoli europei in un determinato momento della storia, perché la fede non può chiudersi dentro i confini della comprensione e dell’espressione di una cultura particolare. È indiscutibile che una sola cultura non esaurisce il mistero della redenzione di Cristo» (n. 118).
È, dunque, il principio dell’Incarnazione – come ripeteva M.-D. Chenu – a legittimare la lettura dei segni dei tempi.
I segni dei tempi
Il Vaticano II insegna che la Chiesa è “nel” mondo il primo “signum” dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (Lumen gentium 1). «Che tutti siano uno, – chiede Gesù al Padre in preghiera – perché il mondo creda» (Gv 17,21). Tale prospettiva ecclesiologica che tiene conto della dimensione del “tempus”, conferisce il suo valore alla categoria teologica dei signa temporum: sia per l’autocomprensione stessa della Chiesa sia per l’illuminazione della realtà mondana in cui essa vive.
Il compito della Chiesa è «signa temporum perscrutandi et sub Evangelii luce interpretandi» (GS 4). Si tratta, dunque, di scrutare i «veri segni della presenza o del disegno di Dio negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui [la chiesa] prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo» (GS 11). Ciò significa mettersi in ascolto dei «diversi linguaggi del nostro tempo, [in modo da] giudicarli alla luce della parola di Dio» (GS 44).
La Rivelazione di Dio avviene, pertanto, sempre “nel tempo”: da una parte, la Sacra Scrittura ci testimonia che «Dio ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana»; dall’altra, la redazione dei testi sacri è avvenuta in base al «tempo e alla cultura» (Dei Verbum 12). Per capire, quindi, sempre più a fondo, meglio comprendere e presentare agli uomini e le donne di oggi in forma più adatta la “Verità rivelata” (GS 44), è necessario questo processo di ascolto, giudizio e interpretazione dei segni della «Presenza di Dio» e delle «voci» del mondo contemporaneo.
All’ultimo Concilio, la Chiesa si è riconosciuta come realtà sociale e fermento della storia, capace di imparare, di ricevere e di arricchirsi nel dialogo con l’altro-da-sé. Questa struttura sociale fa parte della visibilità della Chiesa in quanto «signum sui unitatis in Christo» (GS 44). È questa visibilità nelle sue strutture sociali e culturali che le permette di svolgere la sua missione evangelizzatrice: predicare il messaggio cristiano agli uomini di culture diverse (credenti o non) attraverso il rispettivo modo di essere-nel-mondo e il loro autentico modo di comprenderlo e analizzarlo.
Alla luce del Vangelo, ma anche alla luce dell’esperienza umana! (GS 46), i segni dei tempi in questo senso sono:
(1) segni di una Presenza che vuole farsi sentire attraverso i segni di novità, le aspirazioni di un ordine più giusto e più umano, di certe vicende propriamente interpretate sotto l’impulso dello Spirito Santo;
(2) voci attraverso le quali il tempo si esprime e il cui ascolto e discernimento non è affatto indifferente a una corretta comprensione di ciò che Dio vuole comunicare;
(3) appelli affinché si costituiscano nella fede nuclei di profezia, potenziali interrogativi carichi di forza sfidante per la storia all’interno di quella coessenzialità tra doni gerarchici e doni carismatici costitutiva per la Chiesa.
Se C. Geffré riconosceva una notevole affinità tra la teologia dell’incarnazione di M.-D. Chenu e la teologia dei segni dei tempi del Vaticano II, per P. Coda occorre fare un passo ulteriore per giustificare appieno una lettura dei “segni dei tempi”. Serve esplicitare più adeguatamente che la “luce del Vangelo” con cui scrutare “i segni dei tempi” è quella che promana dall’Evento pasquale posto ontologicamente nell’intimo della Creazione[4].
È indispensabile, pertanto – come ha rimarcato papa Francesco a Napoli[5] – l’assunzione ermeneutica del mistero di Dio Uno e Trino, Oggetto/Soggetto della teologia e far interagire tra loro: 1) il criterio vivo della Pasqua di Gesù come dinamica intrinseca delle relazioni intra-/extra-ecclesiali e della forma trinitaria del “pensare” teologico e 2) il movimento dell’analogia, che – insegna il Vaticano I – aiuta la «ratio fide illustrata» a scorgere il «nexus» che lega fra loro i misteri della natura e quelli di Dio[6]. Si tratta di una prospettiva ontologico-trinitaria dalla forte concentrazione cristologica, in cui il “Segno” per eccellenza diviene l’Evento pasquale che rivela pienamente l’Essere di Dio nel “grido” dell’Abbandonato (cf. Mt 27,46; Mc 15,34) che è il grido dell’umanità senza Dio[7].
Per questo motivo, la Chiesa chiede allo Spirito Santo «innanzitutto, il dono dell’ascolto: ascolto di Dio, fino a sentire con Lui il grido del popolo; ascolto del popolo, fino a respirarvi la volontà a cui Dio ci chiama»[8]. È qui che si rivela – come ci attesta una ricca tradizione mistica e teologica – “la Via” e, quindi, il metodo della Teo-logia. È il Crocifisso-Risorto, vivente come Chiesa, l’unico «Segno» che Dio offre all’umanità (cf. Mt 12,39). […]
Questa concezione kairologica del tempo differenzia il metodo teologico da quello delle discipline umanistiche e sociali che sempre più spesso parlano di «semiotica del temporale» (J. Kristeva) o di «temporalità semiotica» (C.S. Peirce) fermandosi al piano linguistico e psicologico o all’osservazione puramente fenomenica dei fatti[9]. […]
La contestualità
Negli anni Novanta del secolo scorso, in Models of Contextual Theology, Stephen B. Bevans asseriva che per la teologia il contesto è «un imperativo»[10]! L’aggettivo «contestuale» è stato così sempre più accostato alla “teologia”, attirandosi al contempo pesanti critiche – in ambito soprattutto europeo e nordamericano – a motivo delle possibili derive ideologiche marxiste di cui erano nondimeno accusati noti teologi latinoamericani[11].
In Europa, precisamente a Bonn (Germania), il primo a introdurre la “contestualità” in teologia è stato il gesuita Hans Waldenfels con la Kontextuelle Fundamentaltheologie. La sua è stata una proposta essenzialmente di tipo metodologico, basata sulla interazione dinamica – sulla scia di GS 4 e 11 – tra la “luce del Vangelo” e “i segni dei tempi”, intesi come due “fuochi” di una ellisse. Da una parte, quindi, il “testo” del Vangelo e, dall’altra, il “contesto” in cui si vive[12].
Questa sensibilità alla dimensione contestuale della teologia ha condotto alla riscoperta della “tensione escatologica” insita nella Rivelazione cristiana (tensione tra storia e Vangelo, tra verità e libertà ecc.) e ha evitato la giustapposizione “statica” e ridondante dei due “dati” (Vangelo e contesto)[13].
La “luce del Vangelo” con cui il Vaticano II esorta la Chiesa a scrutare “i segni dei tempi” è, infatti, quella che promana da un Evento, non quella che emana da una ratio che si applica aridamente su un “testo scritto” (cf. 2Cor 3,6) o sul proprio milieu socio-culturale. Il “con-testo” è piuttosto l’intreccio di “testi vivi”, ovvero di Life Stories, di biografie scritte con parole suggerite dallo Spirito e contenute nell’unica Parola eterna che è Gesù Cristo.
Si pensi, ad esempio, quanto scriveva James William McClendon in Biography as Theology. Celebri divennero, negli anni successivi al Vaticano II, le sue parole ironiche:
Talvolta noto una certa reazione quando riferisco a qualche sconosciuto che faccio teologia. Dico: “Il mio campo è la teologia”. Poi vedo calare un silenzio alquanto imbarazzante. Dietro gli occhi velati che mi si parano dinnanzi, scorgo una malcelata ilarità (“Ah, quello che c’è dentro si vede, ed è completamente vuoto, vecchio mio, completamente vuoto”)? Oppure intravedo una noia contenuta la quale, se fosse maleducata, si esprimerebbe con uno sbadiglio, ma che invece si esprime con queste parole: “Ah, sì, interessante…” (così facendo, affermano il contrario per nascondere la verità)?[14]
Per “riempire” la parola “teologia” di significato è necessario, quindi, ricorrere ai vissuti concreti dei credenti e non. Quasi parafrasando l’incipit di GS, il Papa ribadisce che: «Le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione»[15].
Un percorso inclusivo di ricerca
Le pagine di questo volume [Per una lettura dei segni dei tempi, Cittadella, Assisi 2024 − ndr] raccolgono il ricco ventaglio di letture che docenti di varie istituzioni hanno voluto offrire in occasione di un Seminario di ricerca svoltosi a Molfetta presso l’Istituto «Regina Apuliae» della Facoltà Teologica Pugliese durante l’anno accademico 2022/2023 dal titolo: «Per una lettura dei segni dei tempi. Epistemologia, fondamenti, percorsi».
A un primo sguardo, il risultato finale può apparire poco rispondente a mostrarci una idea omogenea o almeno sistematizzata del sintagma conciliare “segni dei tempi”. Il motivo è che non vi è stato alcun preaccordo iniziale che ne determinasse lo sviluppo in una direzione piuttosto che in un’altra. Ciononostante gli autori sono giunti di fatto a riformulare alla radice non solo lo statuto epistemologico della teologia, bensì il suo metodo. Pensiamo, ad esempio, al contributo teoretico di V. Gaudiano o a quelli antropologici di M. Acquaviva e A. Bergamo.
L’importanza della lettura della storia, in cui si sono esercitati i padri conciliari al Vaticano II, è qui riportata con partecipazione da G. Guglielmi e da F. De Giorgi. La ricca e pertinente disamina di V. Limone sul metodo praticato da un autore cristiano dei primi secoli come Origene ci permette di scoprire quanto sia ancora da sondare più profondamente la tradizione dei Padri sull’argomento.
Per la Chiesa, inoltre, cogliere l’azione dello Spirito Santo nella storia – ci avverte opportunamente S. Segoloni – significa «purificare il proprio sguardo su Dio, su se stessa e sul mondo intorno a sé». Quali sarebbero, dunque, i segni dei tempi oggi? Paolo VI suggeriva che i segni dei tempi sono rinvenibili laddove «un’eventuale nostra azione di carità o di apostolato viene a combaciare con una maturazione di circostanze favorevoli, indicatrici che l’ora è venuta per un progresso simultaneo del regno di Dio nel regno umano»[16]. Ciò è riconoscibile quando la Chiesa si impegna a ricercare l’unità tra le chiese (R. Burigana), tra le tradizioni religiose (R. Catalano), nel perseguire la pace e la giustizia in un orizzonte più ampio di fraternità (A. Nugnes).
Al termine del percorso, gli autori sono ancor più resi consapevoli che la inter- e la trans-disciplinarità non si fondano su un’astratta teoria della complessità che indulge al relativismo teorico e pratico. Essa è invece un vero e proprio, seppur faticoso, percorso di ricerca della verità dove non c’è mai assoluta unilateralità nell’insegnare e nell’apprendere; dove i “modi” per descriverla mai paiono esaurirla. Significa mettere in circolo idee, fiducia reciproca, franchezza, rigore scientifico e umiltà, tali da metterci in grado di “camminare insieme” e di discernere il tempo presente, non solo attraverso la luce della propria o altrui ragione, ma di quella luce che promana dall’Evento Cristo che è il cuore del mondo e delle nostre relazioni vissute per Lui, con Lui e in Lui.
[1] P. Tillich, Systematische Theologie II., Evangelisches Verlagswerk, Stuttgart 19583, 20.
[2] Paolo VI, Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, 65.
[3] Ivi.
[4] Cf. P. Coda, Evento pasquale. Trinità e storia. Genesi, significato e interpretazione di una prospettiva emergente nella teologia contemporanea. Verso un progetto di ontologia trinitaria, Città Nuova, Roma 1984.
[5] Cf. Francesco, Discorso in occasione del Convegno “La teologia dopo ‘Veritatis gaudium’ nel contesto del Mediterraneo, Napoli, 21 giugno 2019, in «L’Osservatore Romano», 21-22 giugno 2019, 7-8.
[6] Concilio Vaticano I, Costituzione dogmatica “Dei Filius”, cap. IV.
[7] Il tema del metodo in questa prospettiva ontologico-trinitaria è stato oggetto di approfondimento nel mio: I discepoli della via. Questioni e prospettive sul metodo della teologia, Città Nuova, Roma 2019.
[8] Francesco, Veglia di preghiera in preparazione al Sinodo sulla Famiglia, 4 ottobre 2014.
[9] Cf. X. Quinzá Lleó, «“Signa temporum”. La semiótica de lo temporal en el proceso de redacción de la “Gaudium et spes”», in Miscelánea Comillas 93 (1990) 48, 323-369.
[10] S.B. Bevans, Models of Contextual Theology, Orbis Book, 1a ed. 1992, Maryknoll (New York) 2002, 11.
[11] Cf. S. Bergmann – M. Vähäkangas, Contextual Theology: Skills and Practices of Liberating Faith, Taylor & Francis, London 2020.
[12] «Ogni testo deriva da un contesto ed entra in un nuovo contesto. Se esso viene capito nel suo nuovo contesto, ha raggiunto quella che era la sua destinazione originaria: ha di nuovo cominciato a parlare. L’idea che un testo parla soltanto in un contesto non è nuova, in quanto fin dai tempi antichi ogni logos ha cercato il dialogos; la parola, la risposta; il discorso, la conversazione e quindi il dialogo» (H. Waldenfels, Teologia fondamentale nel contesto contemporaneo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 19962, 54).
[13] Mi permetto di rimandare al mio lavoro di ricerca sull’autore: All’incontro con Dio. In dialogo con la teologia di Hans Waldenfels, Città Nuova, Roma 2006.
[14] J.W. McClendon, jr, Biography as Theology: How Life Stories Can Remake Today’s Theology, [orig. Abingdon Press, 1974], Wipf and Stock Publisher, Eugene [Oregon] 2002, p. 67. Sul rapporto Biografia e teologia si veda il numero della «Rivista di scienze religiose» XXVI (2012).
[15] Francesco, Messaggio inviato al Congresso internazionale di teologia presso la Pontificia Università Cattolica Argentina, 1-3 settembre 2015.
[16] Udienza, 16 aprile 1969.