“Padri e figli” di Turgenev, da leggere e rileggere

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La Russia che fa da sfondo alle vicende dell’opera di Turgenev Padri e figli è una realtà ancora profondamente agricola: ad una nobiltà agraria si è sostituita una borghesia di proprietari terrieri che si trova a confrontarsi con un mondo contadino che, nella seconda metà dell’Ottocento, si è fatto meno sottomesso e servile.

Nel 1861 viene abolita, con una legge dello zar Alessandro II, la servitù della gleba. Nel frattempo, i proprietari terrieri cominciano a coinvolgere i contadini nella conduzione delle proprietà e a spartirle con loro in cambio di un tributo. Il passaggio non è facile: i contadini non ricavano profitti sufficienti a pagare il riscatto e per questo – come ben si vede nel romanzo – spesso sono indolenti e lavorano con trascuratezza.

Si diffondono correnti e dottrine che propongono un livellamento sociale (anarchismo, marxismo) o un rinnovamento sociale che deve necessariamente passare attraverso la completa distruzione della società (nichilismo).

La vicenda

La trama è di per sé esile, perché tutta la vicenda si snoda attraverso dialoghi che mettono a confronto due generazioni: i vecchi, tradizionalisti e arroccati in difesa dei valori di una società patriarcale, e i giovani, negazionisti di ogni fede che non si fondi sui dati di realtà.

Il romanzo si apre con Nikolaj Petrovic, proprietario di una tenuta di campagna, che attende il ritorno del figlio Arcadij da Pietroburgo dopo la laurea. Il giovane, accompagnato da un amico di nome Bazarov, medico ed esperto di scienze naturali, è particolarmente influenzato dalle sue idee nichiliste; per questo lo scontro fra le due generazioni è inevitabile.

L’esperienza dell’amore mette in crisi le certezze materialiste di Bazarov che, sezionando incautamente un cadavere, contrae il tifo e, dopo alcuni giorni di agonia, muore. L’evento sembra riportare indietro le lancette dell’orologio: Arcadij si sposa e celebra il suo matrimonio insieme al padre che, finalmente, regolarizza la sua relazione con la serva da cui aveva avuto un figlio.

I padri

Il romanzo si apre con Nikolaij che, presso una locanda, punto di incontro con la carrozza di Arcadij, proveniente da Pietroburgo, attende l’arrivo del figlio.

L’affetto trapela dal suo corrergli incontro «agitando le braccia», dalle sue labbra appoggiate sulla «guancia imberbe e impolverata del giovane», dall’uso insistito del diminutivo Arkasa, e dall’attento ascolto delle sue parole per cogliere che cosa si è conservato in lui dell’educazione ricevuta. Nickolaj pensa all’inevitabile stranezza dei rapporti futuri fra lui e suo figlio: come parlargli della sua relazione con una giovane serva da cui è nato un figlio?

Sente di essere un uomo «di altri tempi». Di fronte al figlio è confuso, intimidito; una uguale insicurezza rivela nei confronti dei contadini che non riconoscono le sue riforme di giustizia sociale e di riscatto dalla condizione servile.

Anche il fratello Pavel crede nei valori della tradizione e in nome di questi si scontra aspramente con il nichilismo di Bazarov, che fin da subito lo definisce «un fenomeno dell’epoca arcaica». La tensione fra i due raggiunge l’apice allorché Pavel, dopo aver sorpreso Bazarov nell’atto di baciare Fenecka, compagna di Nikolaij e madre del loro figlioletto, lo sfida a duello, nell’intento di difendere i valori dell’amore e della fedeltà.

Ma sono sicuramente i genitori di Barazov, Vasilij e Arina, quelli più carichi di emotività. Nell’attesa del suo ritorno a casa dopo diversi anni, l’emozione, seppur controllata, trapela da ogni fibra. La madre fin dall’alba si affanna a procurare il cibo da servire al figlio, incarnando l’istinto primordiale di ogni genitrice: mantenere in vita colui a cui si è dato vita. Il padre «ha il cannello della pipa [che] gli balla fra le mani» e il cuore che palpita nell’incertezza di quanto di sconosciuto si celi in lui e di quanta inadeguatezza egli possa scoprire in loro.

E quando Bazarov, pochi giorni dopo il suo rientro, improvvisamente riparte, i genitori vivono di nuovo il dolore dell’abbandono. Vasilij pensa che quella del figlio sia una fuga dalla noia del vivere presso di loro e a consolarlo sono le parole della moglie Arina: «… un figlio è una fetta di carne tagliata via. È come un falco: va e viene quando vuole… noi siamo come funghi nel cavo di un albero e saremo sempre fedeli».

La finezza di Turgenev nel sondare l’animo dei personaggi si rivela al capezzale di Bazarov ormai morente; qui la disperazione assume connotati di unicità: per chi dà la vita il dolore della morte è eterno. Il romanzo si chiude proprio sull’immagine dei genitori che, ormai vecchi e deformati dal peso della perdita, si piegano piangenti sulla lapide del figlio:

Da un villaggio vicino, giungono spesso due vecchi decrepiti… Sostenendosi l’un l’altro, incedono con passo pesante… si mettono in ginocchio, e piangono a lungo e amaramente, e a lungo e con attenzione guardano la pietra muta… né riescono a lasciare questo posto, dove è come fossero più vicini al figlio, ai ricordi di lui.

I figli

L’arrivo alla tenuta di campagna dei giovani Arcadij e Bazarov è contrassegnato da un misto di gioia e di fastidio. Per Arcadij è «dolce addormentarsi nella casa natia, nel letto ben noto, sotto una coperta cui hanno lavorato mani amate, forse le mani della balia».

Bazarov, invece, non tarda a definire Nikolaj «un uomo antiquato», la cui «canzone è trita e ritrita».  Giudica antiquate le letture del vecchio e con ironia commenta che non serve leggere Puskin; sono romanticherie da bambino, oggi inutili.

Lui è un uomo che non riconosce nulla: guarda ogni cosa da un punto di vista critico, non si inchina ad alcuna autorità, non accetta alcun principio come fede, qualunque sia il rispetto intorno ad esso. Di qui lo scontro con Pavel per il quale, senza principi accettati, anche se per fede, non si può fare «neppure un passo, neppure respirare». Bazarov è un uomo di scienza e la sua fede non va oltre i materiali di laboratorio. Un buon chimico – dice – è più utile di qualsiasi poeta.

Per Pavel la nobiltà è, invece, un valore. Sono grandi gli aristocratici inglesi che non cedono sui diritti e rispettano quelli altrui. L’aristocrazia ha dato la libertà all’Inghilterra. Senza il sentimento della dignità personale, senza rispetto per sé stessi non vi è alcun solido fondamento dell’edificio sociale del bien pubblic. Solo persone immorali o vuote possono vivere senza principi. Tuttavia, per i giovani di oggi, è meglio non riconoscere l’autorità ed è più utile negare. Ai giovani basta dire «tutto al mondo è assurdità» e sono felici.

Per Bazarov tutte queste sono solo parole: «cosa ne viene per il bene pubblico lo stare con le mani in mano?». Aristocrazia, liberalismo, progresso, principi sono «parole straniere e all’uomo russo non servono neanche regalate».

La conclusione

L’epilogo del romanzo lascia aperte tante domande. Il lettore si chiede da che parte stia Turgenev e se davvero il nichilismo dei giovani sia la molla per il rinnovamento della società russa.

Tuttavia, la rapida scomparsa di Bazarov – scomparsa che sembra cercata, perché la noia e, forse, l’impossibilità di amare tolgono appeal alla vita – fa pensare che l’attaccamento dei vecchi alla tradizione sia il binario su cui anche i giovani devono viaggiare. Di lui, nel cuore e nella mente degli altri personaggi non rimane traccia: Arcadij non sceglie di chiamare suo figlio con il nome dell’amico, preferendogli quello del nonno paterno.

Come non sentire, però, la fatica di vivere dei figli dentro un contesto che non ne comprende la sete? I giovani sono ruvidi e offensivi, è vero. Ma Bazarov, più che irritare, intenerisce, perché sceglie di soccombere piuttosto che adattarsi.

A vibrare, alla fine, rimane il dolore privato ed eterno dei vecchi genitori. E forse è in questo amore che va cercata la forza di rinnovamento della società perché in esso – sembra suggerirci Turgenev – si invera il più rivoluzionario dei comandamenti: «Ama il prossimo tuo come te stesso».

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2 Commenti

  1. Umberto 23 agosto 2024
  2. Angela 21 agosto 2024

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